Matrimonio per Procura - La Libretta

Il Matrimonio per Procura

 Ti racconto adesso la storia della emigrazione curinghese così come mi è stato possibile conoscere e così come la ho vissuta in prima persona.
Noi oggi ci possiamo ritenere fortunati per essere riusciti a conquistarci un tenore di vita che ai tempi della mia giovinezza, era impensabile solo immaginare. Ti dirò che i miei tempi rispetto a quelli vissuti verso la fine dell’ottocento e agli inizi del novecento, sono oggi da considerarsi buoni, visti gli esiti e le difficoltà che hanno dovuto superare quelli che in quel periodo avevano deciso di emigrare così come ho deciso di fare io alla fine degli anni ‘60.
Un flusso enorme di meridionali che si dirigeva verso gli Stati Uniti d’America, e per tutti, l'impatto con il nuovo mondo che si rivelava difficile fin dai primi istanti di permanenza, così come è successo a me quando ho messo piede per la prima volta su questa nuova terra. A quei tempi, gli immigrati venivano ammassati negli edifici di Ellis Island, o di qualche altro porto come Boston, Baltimora o New Orleans, e dopo settimane di viaggio, affrontavano l'esame, a carattere medico e amministrativo, dal cui esito dipendeva la possibilità di mettere piede sul suolo americano. 
La severità dei controlli fece ribattezzare l’isola della baia di New York come “l'Isola delle lacrime” perché moltissimi emigrati, dopo il lungo e faticoso viaggio, fatto a suon di sacrifici economici, venivano inesorabilmente rimpatriati mandando in fumo tutti i sogni di una possibile vita migliore.
Curinga rivive queste pagine di storia di emigrazione attraverso le parole di un suo concittadino, certo Giuseppe Cirianni, che ben descrive nelle sue poesie le difficoltà dei suoi due viaggi in America, dove emigra una prima volta alla fine del 1800, ed una seconda volta, intorno all’età di sessant’anni, nel 1929.
Sentimenti ed emozioni si intrecciano nelle sue poesie che descrivono la tempesta in piena traversata atlantica e il suo arrivo proprio “all’isola delle lacrime”.
Per buona sorte, la sua appartenenza al gruppo massonico contrassegnato dai simboli “squadra e compasso”, gli hanno consentito di ottenere ciò che a molti altri è stato invece negato.
Il boom dell'emigrazione negli Stati Uniti fu dovuto a una serie di circostanze su cui è impossibile soffermarsi nel dettaglio e che, in base alle mie conoscenza mi limiterò, anche se in modo superficiale, solo ad elencarti. 
Per quello che riguarda l'Italia meridionale le cause maggiori furono: la crisi della piccola proprietà e delle aziende montane, il declino dell'artigianato e delle manifatture rurali, e naturalmente, la crisi agraria.
Coltivare la terra non bastava più a sfamare e a dare futuro alle proprie famiglie. Un'altra contingenza favorevole all'emigrazione italiana negli Stati Uniti fu data dal fatto che l'Italia si inserì nelle correnti migratorie internazionali quando i costi dei viaggi toccarono il minimo storico. 
In pratica, Navi che trasportavano merci dall'America all'Europa, facevano il viaggio di ritorno con un carico di emigranti che avevano acquistato il biglietto a buon mercato.   Così facendo, lo sviluppo dei trasporti transoceanici rese l'America più vicina del nord Europa.  Assieme ai primi emigranti, i cosiddetti pionieri, uomini soli che si recavano in America a cercar fortuna, si sviluppò, col passare del tempo, il fenomeno della catena migratoria.
Essa seguiva linee familiari, paesane, regionali e professionali nel senso che, operai e artigiani, che si dirigevano nei grandi cantieri edili o ferroviari americani, erano questa volta richiamati dalla possibilità di potere continuare a lavorare svolgendo il proprio mestiere.
Anche parenti, amici e compaesani raggiungevano i primi emigrati, grazie alle notizie che ricevevano attraverso le lettere, inviate dall'America.  
Le lettere contenenti notizie più o meno attendibili, fungevano spesso da veicolo principale di propaganda all'emigrazione nel paese. 
Lette da parenti e amici, a volte nella piazza del paese, servirono ad attirare in America milioni di italiani.
Spesso le lettere contenevano i biglietti prepagati per il viaggio dei congiunti perché finalmente la fortuna e la caparbietà nella ricerca del lavoro, si era fatta strada, ed anche i problemi economici erano risolti. 
I primi a emigrare furono i piccoli proprietari che avevano venduto tutto per finanziarsi il viaggio; fu poi la volta dei primogeniti il cui viaggio e le cui prime spese di permanenza nella nuova terra vennero affrontate dall’intera sua famiglia, compresi i parenti più stretti, vendendo anche strumenti essenziali usati nella loro attività lavorativa. 
Non solo il piccolo appezzamento di terra ricevuto in eredità dai propri genitori o dai propri antenati veniva messo in vendita, ma anche vacche, pecore o capre che erano il vero sostentamento fisico della famiglia. La migrazione a catena, alla lunga, portò alla costituzione delle “little italies” nelle principali città statunitensi, interi quartieri abitati da italiani nelle cui strade la lingua ufficiale erano i vari dialetti dei paesi di provenienza, con negozi in cui si vendevano prodotti di importazione italiani.
Nel periodo compreso tra le due guerre, si verifica un brusco calo delle partenze; vi contribuirono dapprima le restrizioni legislative adottate da alcuni stati e la necessità di un apposito “visto”, che doveva essere favorevole, che spesso veniva fornito dal Parroco o dal Brigadiere del paese di residenza alle autorità preposte al rilascio del passaporto per la partenza.
In questo periodo politico particolare, bastava far parte di una tendenza politica opposta a quella di regime per dire addio con certezza alla possibile emigrazione negli Stati Uniti d’America.
Se poi a questo si univa un parere negativo da parte del parroco del proprio paese, le cose si complicavano ulteriormente per cui, conveniva in ogni caso condurre vita timorata di Dio per potere eventualmente usufruire di un parere favorevole all’esigenza di un eventuale espatrio.
Tantissimi furono in Curinga, i pareri negativi forniti dal parroco del tempo che hanno impedito, anche a persone che necessitavano di questa partenza, di emigrare e sperare in un futuro migliore.
Tendenza politica di sinistra o tendenza alla violenza costituivano indici negativi di presentazione così come negativo era il parere qualora si manifestasse tendenza a bere alcolici in modo smisurato. 
Le reazioni delle persone che hanno subito questi dinieghi, nonostante tutto, non andarono mai fuori le righe, anzi ci si rassegnava serenamente a queste decisioni, forse perché in cuor loro, non c’era la vera intenzione di partire per terre lontane e la voglia di affrontare le difficoltà della emigrazione.
In ogni caso, la politica fortemente restrittiva attuata dal fascismo per motivi di prestigio (l’immagine negativa fornita dalle torme di partenti) e di potenziamento bellico (trattenendo molte giovani leve da impiegare per scopi militari) costituiva impedimento per l’emigrazione. 
Anche il peso delle crisi economiche degli anni ’20 (specie quella del ’29 come racconta la storia) costituì negazione alla emigrazione del popolo Italiano verso le Americhe.
In questi periodi, l’emigrazione si diresse soprattutto verso la Francia, alimentata anche dai numerosi espatri oltralpe degli oppositori politici del fascismo (specialmente comunisti), e verso la Germania negli anni ’30, specie dopo la firma del “Patto d’Acciaio”. 
Aumentano in questo periodo i richiami dei congiunti dall’estero e cresce, quindi, la presenza femminile in America, segno di stanziamento definitivo all’estero da parte di vere e proprie famiglie. 
Anche la nostra, come ben sai, ha messo ormai radici in questa nuova terra e tu stesso, nato proprio in America, col tuo nome Peter Junior così americanizzato, ne sei la conferma di quanto ti sto oggi raccontando.
Dal 1920 al 1940, come affermano statistiche del tempo, emigrarono verso Francia e Germania circa 3 200 000 persone, destinate a supplire alla deficienza francese e tedesca di manodopera nazionale in agricoltura, edilizia ed industria.
Nell’ultimo periodo migratorio riferito agli anni 1945-1970, l’Italia è tornata a fornire consistenti flussi migratori, circa 7 milioni di espatri (questo affermano le statistiche stilate da esperti del settore). 
Proprio questo è il periodo del Boom economico in Italia, con le ricostruzioni del dopoguerra e con il boom dei prodotti industriali, elettrodomestici ed automobili soprattutto, prodotti nelle fabbriche del nord.
I mutamenti politici ed economici del Paese, hanno alimentato così un parallelo flusso migratorio dalle campagne verso le città e le regioni settentrionali più industrializzate, verso il Piemonte soprattutto, dove alla FIAT, si ha possibilità di essere assunti, di esplicare un lavoro ed essere retribuiti con un salario come mai poteva succedere nel proprio paese.
Continua in ogni caso l’emigrazione all’estero, ma prevalgono due destinazioni particolari: extraeuropea (America Latina, Australia, Venezuela) ed europea (Francia, Svizzera, Germania).
Significativa è l’esperienza di emigrazione in Belgio, destinata al lavoro nella miniera ed improvvisamente abbandonata nel 1956, in seguito alla tragedia di Marcinelle nella quale persero la vita anche 136 minatori italiani. Dagli anni ’50 le mete transoceaniche calano ulteriormente ma non cessano del tutto. Se questa era la situazione che riguardava l’emigrazione in sè e che i testi specializzati riportano, a questa rimane legato un aspetto di vita paesana che, per l’importanza e per la particolarità, voglio in qualche modo descriverti.  Molti dei nostri emigrati, e non solo nostri, si ritrovavano ad affrontare in una nuova terra, la loro vita da soli, con l’unico legame alle proprie radici che si manteneva e si rafforzava solo attraverso le missive che viaggiavano a ritmo intenso dalle Americhe e per le Americhe.
La ricerca di una “compagna per la vita” in un ambiente nuovo, che parla una lingua diversa dalla tua e dove le abitudini di vita sono anch’esse diverse, diventava difficile se non impossibile così, riaffioravano sparsi ricordi giovanili di ragazze, e suggerimenti strettamente familiari, convincevano alla lunga questi emigrati al “matrimonio per procura” con tutti i rischi che questo comportava. Così, con le solite missive, cominciarono a viaggiare anche foto ritraenti donne che potevano costituire future mogli per i propri figli emigrati e, tra una missiva che partiva ed una che ritornava, si cominciava a fantasticare su una vita in comune con una di queste donne, ritratte in queste foto, che costituivano pure una buona compagnia per chi si era abituato a vivere in stretta solitudine.
Qualcuno raccontava:
“Quando arrivò quella foto partita dal paese: “Ho detto subito di sì”, che andava bene – dice - la garanzia che fosse una brava ragazza me la dava la sua provenienza, sapevo che il paese era abitato da brave persone, da donne onorate e rispettate ed onesti lavoratori”.
Si trattava pur sempre di una foto che, nei suoi limiti, non aveva purtroppo la facoltà e il potere di trasmettere aspetti caratteriali della persona rappresentata, ma nonostante tutto, spesso si riusciva a concordare a distanza un matrimonio che avrebbe poi fatto incontrare i due predestinati.
In una fase successiva, lo sposo spediva l’atto di “richiamo” per la moglie promessa, ed era un “matrimonio al buio”, con tutti i suoi possibili limiti e i suoi possibili rischi, ma nella maggior parte dei casi ben riuscito.
 Alcune volte, sulla serietà della persona suggerita, ci si fidava sulla parola e sulla fiducia di chi, una determinata realtà familiare la aveva semplicemente seguita dall’esterno senza mai averla vissuta. 
Era la serietà della famiglia e la consapevolezza che nel paese, rare erano le situazioni di cui non si poteva o non si doveva fidare di una ragazza perché tutte, indistintamente, a modo proprio, e per avere vissuto in questa comunità, garantivano al cento per cento la loro serietà e illibatezza. 
Era il periodo dei “Matrimoni per procura”, una pratica diffusa a causa dell'emigrazione che fino agli anni '50-'60, come detto, colpì l'Italia, e alla quale non sfuggì la nostra comunità.
Si trattava di un vero e proprio matrimonio che veniva celebrato nel paese d'origine e ivi registrato.  
In chiesa il sacerdote celebrava la funzione con la sposa in regolare abito bianco, mentre al posto dello sposo compariva un amico di fiducia o un parente (di solito il padre di lui); seguiva una breve festa fatta in casa, con tutti i parenti e i vicini di casa.
 Tutti gli invitati presenti potevano assaggiare un dolcetto, una bibita alcolica o un semplice bicchiere di vino accompagnato da una frappa (Nicatula) che non è mai mancata nei matrimoni curinghesi. 
Superata questa prima fase, si provvedeva a sistemare le carte per la partenza e l’espatrio e a spedire, via mare, il famoso “baule” che conteneva, oltre all’abito bianco da sposa, anche le cose essenziali della dote.
 Quando i due sposi si ricongiungevano, era loro dovere fare la foto da mandare ai parenti, con la sposa che rindossava l'abito bianco, oppure un simbolico velo bianco, per rivivere, anche per un solo momento, la gioia che si può provare quando si decide di sposare una donna.
Era un fotomontaggio realizzato dai fotografi del tempo che poneva i due sposi l’uno vicino all’altro, che rendeva felici i genitori che la ricevevano e i parenti tutti.
Ci sono delle storie straordinarie di persone che si sono sposate per procura e che sono vissute felicemente per tutto il resto della loro vita.
Quante donne vissute all’ombra di un campanile, che lavoravano sempre nel timore di Dio, portando avanti lavori faticosi di campagna o di normale vita familiare, vissuta in povertà con i propri genitori hanno scelto di percorrere questo sentiero di vita?
Quante donne sposate ad un marito emigrato hanno sopportato le difficoltà del viaggio, con figli a seguito, per raggiungere il proprio marito e congiungersi con esso?
Sono state tante anche se a noi oggi sembrerà un aspetto troppo crudele di vita terrena vissuta perché in realtà, sposare chi non si conosce costituisce sempre un rischio di vita.
 Una tessera del mosaico da aggiungere:
L’orologiaio che operava Sotto via
 Da quanto fino ad ora raccontato, avrai capito che, ogni storia di ogni singolo personaggio, costituisce una tessera del mosaico che ci siamo proposti di ricomporre.
Si scopre in definitiva, il modo di vivere delle persone che ci hanno preceduto, quali fossero le loro difficoltà di vita e quali fossero i problemi giornalieri che dovevano superare per sperare di vivere più serenamente la giornata vissuta al momento, e più agiatamente quelle a venire.
Viene fuori la storia vera, quella vissuta da questa comunità, e non solo quella che ha visto i suoi eroi immolarsi per la patria, ma anche quella delle persone comuni che hanno operato e sacrificato la loro esistenza rendendo viva ogni attività artigianale da loro svolta, e ogni angolo di campagna circostante producendo in essi beni di immediato consumo.
Una comunità caratterizzata dal lavoro al quale nessuno ha mai pensato di sottrarsi, e le attività erano tante e si svolgevano in botteghe, la cui ubicazione si trovava quasi sempre, in prossimità della strada principale che attraversava il paese.
Corso Garibaldi, Via Roma, Via Gornelli, Via Nazionale, Via Ospizio, Via Pietrapiana, Via San Rocco, Rivenzino, Addolorata e tutti i vicoli, pullulavano di attività, e non c’era Garage (Catuojiu) che non ospitasse almeno un Telaio dove ferventi ed esperte tessitrici portavano avanti il loro lavoro.
Si sfruttavano le vie principali del paese perché era importante dare visibilità alla propria attività, perché la rendeva più popolare tra la gente del luogo ed era più facile in questo modo accaparrarsi il lavoro rispetto ad un’altra attività similare posta magari in uno dei tanti vicoli interni del paese.
Tra Fabbri, Falegnami, Calzolai, Sarti, Tessitrici ecc., già di prima mattina, attivi sul posto di lavoro, le vie del centro erano sempre popolate ed affollate di gente indaffarata nel portare avanti la propria attività.
Ogni lavoro veniva scandito dai rintocchi dell’orologio del campanile della Chiesa Matrice che, ogni quindici minuti e, per l’intero arco delle ventiquattro ore, con rintocchi più intensi per le ore, e meno intensi per i minuti, comunicava l’ora del giorno a tutti gli abitanti.
In realtà, il Mattutino ed il Vespro stabilivano, per molte attività, l’inizio e la fine della giornata lavorativa, e l’orologio della chiesa scandiva l’operato delle persone perché, in massima parte, nessuno possedeva un orologio proprio.
In aperta campagna e in assenza d’orologio, le fasi lavorative seguivano la posizione del sole nel cielo o l’intensità della luce solare o, l’esigenza di dover mettere qualcosa sotto i denti per placare la fame, in qual caso si avvicinava il mezzogiorno.
Dentro le case, le ore venivano scandite da sveglie rumorose, il cui Tic – Tac si udiva da ogni angolo della casa e . . . dal vicolo vicino, ed il suono della sveglia mattutina era in grado di svegliare un intero vicinato, senza che, per questo, nessuno avesse a lamentarsi.
Alcune famiglie benestanti, possedevano l’Orologio a Pendolo per la loro casa e, il capo famiglia, l’orologio da Taschino, legato ad una elegante catenella, in oro o in argento, agganciata al passante del pantalone o all’occhiello del gilè.
Nonostante queste limitazioni, un orologiaio, certo Bruno Villelli, operava in uno scantinato posto nel sotto strada di via Roma, all’altezza della Chiesa Matrice(?); egli sistemava sveglie mal funzionanti che spesso si fermavano senza apparente motivo, oppure acceleravano o deceleravano il loro percorso, sfalsando completamente l’ora della giornata.
Si rendeva utile, in questi casi, l’intervento dell’esperto orologiaio.
Il signor Villelli era indubbiamente bravo nel suo mestiere perché, nel bene o nel male riusciva sempre a mettere a posto gli orologi o le sveglie a lui affidate, e veniva ricordato da tutti come “u profhessori” di questo mestiere.
Anche se interpellato per strada, era sempre pronto ed in grado di diagnosticare il difetto dell’orologio in oggetto.
Affermava sempre, o quasi sempre: “è sicuramente u Bilancieri”, e non c’erano alternative al guasto pronosticato da Don Bruno (?) Villelli.
Ti sembrerà strano, ma dall’orologio del campanile della chiesa, derivava un gioco, denominato proprio “il gioco dell’orologio”, molto in voga sulla spiaggia d’estate, che ormai, è stato da tutti dimenticato.
Era molto praticato negli anni ’50 – ’60 sulla nostra spiaggia, quando le famiglie si trasferivano al mare coi famosi Capanni o Baracche, e veniva messo in atto da ragazzi e ragazze, in numero di dodici (tanti quante sono le ore della giornata), seduti l’uno accanto all’altro in modo da formare un’ampia circonferenza, e si richiamavano l’uno con l’altro usando il numero dell’ora ad essi assegnato e da loro interpretato.
In pratica, si metteva a dura prova l’attenzione, la capacità di concentrazione e di prontezza di riflessi per ognuno che, in un qualsiasi momento ed in modo del tutto casuale, poteva essere chiamato in causa per rispondere col proprio numero, controbattendo a sua volta, e chiamando in causa un altro compagno di gioco che, a suo parere, sembrava in quel momento più distratto di altri.
 Rispondeva “Non erano le due ma erano le nove” e, di rimando doveva rispondere il numero nove controbattendo istantaneamente: “non erano le nove ma erano le Dodici”.
A questo punto, al giocatore che interpretava le ore dodici, se non rispondeva in tempo perché magari distratto dallo sguardo di qualche ragazza, o perché parlottava col vicino o anche perché sopraffatto dal sonno, veniva commissionata una pena. In pratica era costretto, poggiandosi con le mani per terra, a battere il sedere sulla sabbia tante volte quanto indicava la pena.
Nella più pesante doveva simulare la mezzanotte meno un quarto il che si tramutava nello battere col sedere per terra per undici volte in modo pesante, e tre volte un po’ meno pesante così come suonava l’orologio della chiesa. La pena più gradita era certamente la simulazione dell’una che, con un solo battito finiva la penitenza.
Era un modo per socializzare, per stare insieme e per far capire ad una ragazza presente o, viceversa ad un ragazzo presente, l’interesse “sentimentale” dell’uno nei confronti dell’altro.
Era inevitabile che ognuno richiamasse l’attenzione della persona interessata imponendo magari un numero di facile esecuzione della penitenza qualora si dimostrasse distratta nel rispondere.
Il tutto con il sottile intendimento di interesse personale, perché, in ogni caso, non voleva fare esibire la “sua ragazza (?)” in performance lunghe e faticose, mettendola al centro dell’attenzione di tutti i partecipanti.
Traspariva sempre “un filo di gelosia”.
Penserai: “giochi infantili per giovani ingenui e ignoranti”.
Forse è vero, ma si viveva serenamente ed in modo genuino.
La Libretta
(Quaderno mastro in uso per la spesa)
 Che i curinghesi fossero solidali l’uno con l’altro è noto a tutti, ma non tutti ricordano un tipo di solidarietà che ha consentito a molte famiglie del luogo di potere vivere senza essere oppresse dalla idea di come, di cosa potere mangiare durante la giornata.
I soli prodotti della campagna non bastavano per mantenere in forze un operaio o un qualsiasi lavoratore artigiano o contadino che fosse.
E’ vero che pasta fatta in casa, pane, salami, carni bianche, salse e conserve non mancavano nelle case, ma era anche vero che non tutti i giorni si poteva mangiare verdura o salame, così come non sempre era possibile preparare la pasta fatta in casa o disporre della farina per preparare il pane perché non tutti avevano le stesse disponibilità economiche.
Era necessario quindi approvvigionarsi in qualche modo di qualche genere alimentare diverso di quello di cui si disponeva, perché questi, non sempre erano sufficienti.
Le annate poi, non si presentavano tutte benevoli, ma c’erano da superare anche le “malannate”, quelle in cui i raccolti e il lavoro erano magri o scarseggiavano.
In questi casi, alcuni generi come ad esempio la pasta e lo stesso pane, dovevano essere comprati al negozio, e per molte famiglie ciò non era possibile perché il danaro scarseggiava.
Per superare questi momenti di difficoltà, i curinghese usarono “la Libretta”, un quaderno in duplice copia a copertina nera e bordo rosso, sul quale giorno dopo giorno, un negoziante, dietro precedenti accordi stipulati tramite stretta di mano, si impegnava a cedere generi alimentari, con la promessa di essere pagato per tutto l’ammontare della cifra “monte spesa”, non appena il datore di lavoro o l’azienda presso cui lavorava il contraente l’avesse pagato.
In pratica, quando una massaia si recava ad un negozio per fare la spesa, non portava con se l’adeguato quantitativo di danaro per far fronte a ciò che aveva in mente di comprare, ma portava la libretta sulla quale, il rivenditore annotava la merce che al momento veniva consegnata.
Giorno 12-1-1957
 N° 1 Kg di pasta Vermicelli         £ 120;
½ Kg di formaggio                          £ 200;
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e così via dicendo.
(I prezzi riportati sono quelli degli anni ’50 – ’60, quando il costo della vita era molto più contenuto rispetto ai giorni nostri, e per rendersene conto basta pensare che un operaio stipendiato guadagnava non più di 25/30.000 Lire al mese.
Il Giornale costava £ 20, una Tazzina di caffè £ 20, Il Pane 100/110 £ al Kg, il Latte 75/80 £ al litro, la Pasta 130/140 £ al Kg, la Carne 500/800 £ al Kg, lo Zucchero 275 lire al Kg, e la Benzina 116 £ al litro).
Le annotazioni di spesa venivano riportate nell’identico modo sul quaderno tenuto in cassa dal negoziante e tali annotazioni, venivano trascritte ogni qual volta l’acquirente ritirava qualcosa dal negozio.
Non c’erano limitazioni d’uso della libretta nel senso che poteva essere più volte usata nell’arco della stessa giornata senza che il rivenditore ne facesse obiezione.
Il costo di ogni singolo prodotto comprato veniva riportato segnando la data, il genere di prodotto, il quantitativo ed il costo, così come viene oggi riportato su uno scontrino fiscale rilasciato da un qualunque rivenditore.
Ovviamente, l’uso della libretta, era una pratica “non legale”, e per questo non era messa in atto da tutti i commercianti del posto.
In ogni caso, chi ne faceva uso, non portava alcuna vergogna.
 Le cose trascritte in Libretta, venivano conteggiate a fine mese o, alla data in cui impiegati, operai e contadini venivano retribuiti.
Al momento del pagamento, si confrontavano le cifre riportate nell’uno e nell’altro quaderno (che coincidevano alla perfezione) e venivano pagate, serenamente e con adeguato ringraziamento, dal contraente.
A conclusione, si salutavano con una amichevole stretta di mano, segno di tacito accordo sul rinnovamento contrattuale tra le due parti.
Di questi contratti ce n’erano tanti e, a mio ricordo, mai tra i contraenti sono sorti motivi di screzio anzi, le cifre venivano pagate così come venivano trascritte, senza che le stesse subissero una variazione per ritardati pagamenti o interessi conteggiati o altro.
Chi, in quel particolare momento non poteva assolvere al pagamento dell’intera cifra, gli veniva concessa proroga adeguata, fino a quando la cifra dovuta non veniva ad essere completamente saldata.