U Capillaru e u Crastaturi

Quando le donne barattavano oggetti con i “capelli”

 Bello, è oggi vedere tanta gioventù per la strada, al Bar, sul Corso a passeggiare allegramente in compagnia di amici ed amiche senza alcun condizionamento esterno.
Non così ai tempi della mia gioventù nel senso che, ragazzi e ragazze sembrava formassero due “specie diverse”, e le donne sposate e le signorine da marito, erano sempre intente nelle faccende di casa, quando non erano impegnate in campagna, con i loro padri o con i loro mariti ad assolvere a qualche lavoro stagionale.
Quando fuori di casa non c’erano lavori da eseguire, le uscite delle donne erano limitate al solo andare a prendere legna “de lu catuojiu” che si trovava nelle vicinanze della casa, o ad attingere l’acqua potabile dalla fontana del rione, o recarsi in chiesa per assistere alle funzioni religiose, e poche o pochissime altre uscite fuori di casa.
Tutto questo era un indice di serietà e compostezza per le donne vissute in quei tempi, ed era una garanzia di onestà per i mariti o i padri di famiglia, cose cioè che costituivano caratteristiche positive che facevano preferire una ragazza o una famiglia rispetto a un’altra da parte di un possibile fidanzato.
Per l’uomo era diverso perché per lui, c’era sempre la massima libertà nel poter uscire di casa, soprattutto quando non c’era da lavorare in campagna e non c’era nemmeno la necessità di spaccare legna per il focolare di casa.
L’uomo poteva uscire in qualunque ora, e qualsiasi momento era buono per andare ad incontrare gli amici al Bar o nella Bettola per giocare una partitina a carte, o nella Bottega artigiana preferita (Barbiere, Calzolaio o altro) per passare il tempo in compagnia senza correre il rischio di annoiarsi, discutendo e confrontandosi con altri amici lì presenti.
Non c’era Televisione e, anche le Radio scarseggiavano nelle case dei Curinghesi per cui, bisognava ingegnarsi per decidere come passare e impegnare costruttivamente il tempo libero.
Per le donne, come ti ho detto, poche erano le occasioni di uscita di casa col semplice scopo di passare un po’ di tempo, con le amiche o con le vicine di casa, per distrarsi un po’ dalla solita routine familiare.
Le chiacchierate “supa lu mignanu” della vicina di casa, era una di queste uscite possibili ma, quelle che erano giustificate si verificavano quando per la strada e per i vicoli arrivava il Rivenditore Ambulante di Biancheria Intima e da corredo, o l’Arrotino oppure il “Castratore”, colui che era preposto a Castrare i Maiali favorendone l’ingrasso, importante per la famiglia che cresceva, in proprio, questo animale.
Poteva arrivare anche lo Stagnaro per sistemare il Calderone (a coddara) o le pentole (stagnati) di rame e alluminio, oppure “u Capillaru una persona preposta a scambiare Capelli da donna, con i primi prodotti in Plastica (secchi, vasche, scolapasta, mestoli o altro), od anche Pettini e Pettinisse in osso adoperate dalle donne per fermare i lunghi capelli dietro la nuca.
Passava per le strade anche il rivenditore di Spille da Balia, di Aghi di varia dimensione per rammendare e cucire dentro casa, Ferrettini per Capelli, Fettuccia Elastica utile per sostituire quella sfibrata della biancheria intima e, quando arrivava, richiamava attorno a se molte presenze.
Erano tutte occasioni da sfruttare per la comodità d’acquisto loro offerta, ed erano vere e proprie contese tra offerta del venditore e spesa da affrontare, con le casalinghe a tirare al ribasso sempre più sul prezzo, fingendo anche di andarsene per poi ritornare sui loro passi quando si rendevano conto che, per il prezzo imposto, poteva valere la pena affrontare la spesa pur di appropriarsi dell’oggetto desiderato.
 Diversa la presenza femminile quando passava per i vicoli l’Arrotino; in questi casi, oltre alle donne madri di famiglia erano presenti anche le ragazze con Forbici e Forbicine da Ricamo per farle affilare ed essere così più leste nel lavoro di Taglio e Cucito o nell’eseguire Ricami su Federe o Lenzuola facenti parte del corredo da sposa.
Lo Stagnaro arrivava puntuale anticipando la mattanza dei Maiali perché, sapeva che era l’occasione buona per passare di stagno i grandi Calderoni e le grandi Padelle che costituivano le attrezzature base per sciogliere il Grasso o per preparare il soffritto con la carne fresca.
A differenza degli altri ambulanti, lo Stagnaro sceglieva determinati posti del paese dove sistemare i suoi attrezzi da lavoro, accendendo un piccolo fuoco col quale riscaldava il suo grosso saldatore e lavorava intensamente soddisfacendo le richieste dei vari committenti del rione.
Capitava anche che, nella stessa giornata cambiasse rione e posto di lavoro perché le sue commesse erano tante che, per soddisfarle, doveva essere lì presente anche il giorno seguente.
Chi non ricorda il Sig. Sebastiano Trovato, Banditore per eccellenza della Curinga degli anni ’50 – ’60 che, per le strade di Curinga declamava:
“Cu ava Puorci de Crastara, mu vena domana mitinu a li ottu e menza, a Triccannali, ca vena lu crastaturi de Nicastru”.
Era in sostanza l’avviso che, l’indomani mattino, un Veterinario sarebbe venuto a Curinga da Nicastro, per Castrare i Maiali, operazione che aiutava gli stessi ad ingrassare ancora di più.
Inutile dirti che le presenze erano massicce perché numerose erano le famiglie che allevavano il Maiale.
La scelta del posto non era casuale, e veniva spesso scelto Tre Canali perché offriva acqua in abbondanza, utile per lavare e sterilizzare i “ferri del mestiere”, quando si passava da un’operazione a quella successiva.
 I miei ricordi mi portano a quelle donne anziane che, al mattino, e spesso anche nei pomeriggi tiepidi di fine estate e primaverili, sedute sul gradino della porta di casa stavano a pettinarsi i lunghi capelli e ad intrecciarli per formare quelle lunghe trecce che, oggi, non si usano e non si vedono più.
All’epoca, la maggior parte delle donne non usava fare la permanente ai capelli e gli stessi capelli, non essendoci ancora lo shampoo e il sapone liquido, si lavavano molto ma molto poco e quando lo si faceva, si usava lavarli col “sapone fatto in casa” che li igienizzava, ma non li profumava.
Si usava invece intrecciarli in lunghi e grosse trecce, che le donne maritate usavano attorcigliate dietro la nuca mentre le ragazze le lasciavano pendere dietro le spalle o scendere lungo i fianchi
Tra le ragazze c’era comunque chi preferiva intrecciare i suoi capelli in un’unica treccia per formare la “coda di cavallo” che lasciava pendere lungo la sua schiena e che era molto bella da vedere.
Quello che era caratteristico in quest’abitudine di pettinarsi, era l’uso di un pettine doppio, con due lati opposti che presentavano denti stretti da una parte e denti più larghi dall’altro.
Dopo le prime passate col pettine a denti larghi, si passava ai denti più stretti e, il ripassare tante e tante volte sul capo, lo si faceva con l’intento di riuscire a stanare qualche pidocchio che, a quei tempi, era sempre presente, ma anche per renderli più ordinati e lisci.
L’operazione si eseguiva spesso tra familiari, con la mamma che pettinava la figlia oppure la nonna che spulciava le nipoti, ma, succedeva anche l’inverso.
In tutti i casi, non usando shampoo o, prodotti particolari per i capelli, gli stessi diventavano con gli anni sempre più fragili, e cadevano copiosi “supa la fhoddalicchjia” o sugli asciugamani bianchi posti sulle spalle. Niente di preoccupante, perché i capelli caduti si raccoglievano in piccole ciocche, si attorcigliavano come se fossero fili di lana e si conservavano perché costituivano una risorsa sfruttabile quando per i vicoli e per le strade passava “U Capillaru”.
Questa figura di commerciante, si auto annunciava gridando: “U Capillaru passa”, e poco dopo compariva per i vicoli un signore con addosso tante cianfrusaglie tra le quali secchi e vasche in Plastica, legate tra loro e a tracolla sulle spalle e che costituivano la merce di scambio.
A questo preavviso, le donne, soprattutto quelle di una certa età, si precipitavano in strada con in mano il loro “tesoretto di capelli”, e cominciavano a contrattare sull’oggetto di scambio.
Poche ciocche di capelli potevano fruttare uno scolapasta, o un secchio, oppure pettini e ferrettini per i capelli, il tutto in quantità proporzionale al quantitativo di capelli messi in baratto.
Non liti ma. . . vere e proprie vivaci contrattazioni fatte spesso sulla resistenza dell’una o dell’altra parte, con la piacevole convinzione da ambo le parti di avere, alla fine, “concluso un affare” vantaggioso.
Un’altra figura che appariva per i vicoli del paese, era il Rivenditore di Spille da Balia ma anche di Aghi di varia dimensione, utili per rammendare e cucire dentro casa, di Ferrettini per Capelli, di Fettuccia Elastica utile per sostituire quella sfibrata dalla biancheria intima, e tanto altro.
Il suo arrivo richiamava molte persone, soprattutto le ragazze che, a schiera, lavoravano o imparavano il mestiere del Ricamo presso una Maistra del paese. Il commerciante si presentava con una cassetta di legno a bordo basso appesa al collo, all’interno della quale si trovava la merce messa in vendita.
A supporto e a completamento della merce proposta, portava anche una valigia in cartone che conteneva altri articoli, spesso quelli di valore più pregiato, ma di minore richiesta dato il costo più elevato.
Era simile ad una borsa a tracolla che il rivenditore apriva solo in caso di necessità, quando cioè qualcuno richiedeva qualcosa di più prestigioso.  In questo caso, la vendita non si trasformava più in “Baratto” di merce, perché il Baratto era riservato solo agli oggetti di minore valore.
Accadeva spesso che le donne offrissero come merce di baratto legumi come Fagioli e Ceci, in cambio magari, di una confezione di aghi da cucito o da ricamo o da Materassaio, per ben cucire e sistemare i materassi in lana, in uso dalle famiglie del tempo. Andavano a ruba i Ditali, le forcine per capelli, e le “Pettinisse” in osso decorato che, oltre ad assolvere al compito di tenere in ordine i capelli dietro la nuca, costituivano un oggetto ornamentale da esibire in chiesa, durante la messa, oppure nelle poche occasioni mondane.
Spigolature: cose da ricordare o da dimenticare?
 Non sempre raccontare gli eventi significa centrare perfettamente l’obiettivo di ciò che si vuole raccontare che è quello di parlare del vero e di ciò che di reale si è vissuto, perché tante sfumature, tanti aspetti comportamentali, tante usanze apparentemente insignificanti, inevitabilmente sfuggono.
Anche nell’osservare una vecchia fotografia possono sfuggire particolari che raccontano una storia, o nel ricordare eventi vissuti in prima persona in cui si possono omettere gesti che, se rimeditati, consentono ancora di capire più a fondo il nostro tempo ormai andato.
Si è sempre detto che “il tempo è danaro”, ma una volta lo era ancora di più perché era pur sempre una vita di sacrifici, alcune volte di stenti e l’oziare o stare a perdere inutilmente tempo, era per tutti inammissibile perché poteva significare “fare la fame”.
Bisognava fare, lavorare, se necessario anche le domeniche e le feste comandate; una filosofia di vita sposata da tutti, che magari sacrificavano il loro sonno e il loro riposo pur di riuscire a mettere a frutto il loro tempo, alzandosi in piena notte, iniziando il proprio lavoro alle prime luci dell’alba riuscendo così a ritagliare quel tempo utile da dedicare ai rapporti sociali che si manifestavano andando a Messa la Domenica o frequentando gli amici in piazza nei giorni di festa.
Soprattutto i “Mastri Artigiani” ponevano in essere il risparmio di tempo come obiettivo primario, e cercavano di inculcarlo soprattutto ai loro seguaci “discipuli” che, numerosi, frequentavano le loro botteghe con l’intento di imparare il mestiere.
Per i tempi, sapere svolgere una attività ed avere un mestiere in mano, era fondamentale, poteva significare avvenire assicurato o emigrazione certa o, addirittura contadino a vita.
Chi, degli appartenenti alla generazione degli anni ’40 – ’50 non ricorda il famoso “Orologio a Saliva”, una sorta di “segna tempo” o di tecnica messa in atto dai Mastri, nell’intento di indurre a maggiore sollecitudine e a giusta valutazione del tempo da parte dei loro discepoli?
Portare a termine un lavoro nei tempi giusti significava potersi dedicare ad altro lavoro o, addirittura ad altra attività, e così facendo portare a casa qualcosa in più che poteva significare tanto.
Non c’era artigiano in Curinga che non possedesse almeno un piccolo appezzamento di terra da coltivare, che contribuiva ad integrare in modo significativo il suo reddito fornendo derrate alimentari come Olio, Vino o cereali di ogni tipo.
I lavori negli appezzamenti di terra di proprietà, venivano condotti proprio nei ritagli di tempo guadagnati e con l’aiuto dei propri discepoli che, non potevano in nessun modo sottrarsi a tali fatiche, perché essere discepoli, significava anche questo.
Il Lunedì, ad esempio, giorno di tradizionale chiusura per i Barbieri, era dedicato ai lavori nel vigneto o nell’uliveto, nei quali campi i Mastri si recavano con tutto il seguito dei discepoli per eseguire i lavori di stagione (raccogliere frasche o tralci di vite, passare di rame o di zolfo le viti, ecc.). In verità, accompagnavano il Mastro anche nella fase piacevole della vendemmia.
L’orologio della Chiesa Matrice scandiva, come ancora oggi scandisce, il passare del tempo ogni quarto d’ora, ed ogni artigiano, sentendolo, affrettava il suo lavoro per rientrare nei tempi giusti delle operazioni da eseguire, ma quando si rendeva necessario scandire e misurare il tempo per portare a termine una determinata missione da parte di uno dei suoi discepoli, allora entrava in gioco il famoso “Orologio a Saliva”.
Non c’erano telefoni o cellulari utili a trasferire in tempo reale una determinata informazione da un posto ad un altro.
C’era solo la possibilità di impiegare in questo, uno dei discepoli frequentatore della sua bottega Artigiana, e la notizia in questi casi, viaggiava in mani certe e su “due gambe”, quelle del discepolo scelto.
 Spesso le esigenze o “imbasciate” si riducevano ad andare a comprare materiale da lavoro come: chiodi di varia dimensione e forma per il mastro Ciabattino, Falegname o Fabbro; oppure aghi e filo colorato per i Sarti e le Ricamatrici e . . . così via dicendo.
Anche la pasta o la frutta da comprare per la famiglia del Mastro era spesso compito di uno dei suoi discepoli, soprattutto quando per questi prodotti non c’era da fare una scelta. 
 Diceva il Mastro: 
“Vai ggha don Brunu Davuli e pigghjia nu chilu de pasta curta”; oppure, “Vai ggha Mastru Giuanni e accatta mienzu chilu de Attacci”: od ancora
“Vai ggha donna Maria e dinci mu ti duna nu chilu de pumadora ca pua passa lu Mastru e nci li paga, oppuru, ca pua scuntamu;
Erano queste le impellenze più significative a cui si sottoponevano i vari discepoli delle varie botteghe del paese però, ad una condizione ed in tempi che dovevano essere rispettati: “la durata dell’orologio a Saliva”.
Quest’ultimo veniva riprodotto rigurgitando un po’ di saliva in bocca, e depositandola per terra con tutta una serie di bollicine che si formavano intorno.
 La furbizia del mastro o la scaltrezza del discepolo, ponevano alcune condizioni iniziali che facevano durare di più o di meno le bollicine della saliva e che consistevano nello stabilire sia la dimensione, di solito a discrezione del Mastro, che la posizione dell’orologio, al sole o all’ombra perché, anche questo ne condizionava la durata.
Qualora la commissione venisse portata a termine ad “orologio spento”, cioè con tutte le bollicine salivari scoppiate, allora subentrava inevitabile la punizione che consisteva in una veniale penitenza, che poteva consistere nel non potersi allontanare dalla bottega per un semplice bisogno fisiologico, oppure in un ritardato rientro a casa per l’ora di pranzo.
Tieni presente che le botteghe difficilmente erano dotate di bagno e lo stesso era costituito dal burrone o dal vicoletto vicino, anche per i discepoli che abitavano in prossimità della bottega stessa, perché questi, difficilmente si recavano a casa propria per assolvere ai loro bisogni.
Così, le esigenze fisiologiche venivano soddisfatte nel burrone di Tre Canali, per le botteghe che operavano in Piazza Immacolata e dintorni, o nel burrone di Gornelli, per quelle ubicate in via Roma o Piazza Diaz, od ancora dietro la Gabina di via Nazionale per le botteghe che ivi operavano, infine burrone dell’Ospizio per le botteghe che in questo rione lavoravano.
I vicoli erano invece adoperati per i bisogni più leggeri e nei casi in cui non ci fossero burroni vicini, come ad esempio quelli di Piazza Marconi, (Pruscinu), si utilizzavano l’Arco di Tavano e il vicolo vicino oppure l’arco di Palazzo Bevilacqua.
Quest’arco rimane famoso anche per un rivolo nero che era visibile perennemente per terra, come se fosse costantemente affrescato.
I vicoletti poco trafficati, venivano usati non solo dai discepoli di bottega ma anche e soprattutto di sera, dai bevitori di vino, che affollavano le numerose cantine del paese.
Si usava dire: “li tacchi nci arrivavanu a lu cuogghu” per indicare che la commissione si portava a termine velocemente, correndo per le strade pur di riuscire nell’intento, e di non essere obbligati a rinunciare alle necessarie uscite per le più strette esigenze personali.
Che le generazioni appartenenti a questi anni ’40 – ’50 fossero parsimoniosi in tutto, lo dimostra non solo la frenetica attività e la serietà con cui si ponevano di fronte ad un lavoro da eseguire, ma anche e soprattutto con la tendenza al risparmio e al riciclo di cose utili nel proprio lavoro.
 Chi non ricorda i ritagli di carta di giornale infilzati ad un chiodo, a lato dello specchio di un qualsiasi barbiere del paese che venivano usati per ripulire il rasoio da barba. 
 Un singolo ritaglio era utile per ripulirlo durante l’operazione di rasatura ad un cliente.   Con fare garbato e sicuro, il barbiere prendeva con la mano sinistra questo foglio in mano e, strofinava il rasoio intriso di schiuma e di peli in modo tale da ripulire la lama.
Non si usava acqua corrente, ma acqua attinta alla vicina fontana in una bacinella, posta su un supporto in ferro, a due ripiani, uno dei quali supportava la bacinella mentre l’altro, quello in basso, sosteneva una brocca smaltata in pendant con la bacinella adoperata.  Ai bordi veniva appeso un asciugamani utile per asciugare la faccia al cliente prima di essere irrorata di alcool puro contenuto in una boccetta a pompetta. 
Il foglio di carta così intriso di schiuma e di peli da barba, veniva buttato nel secchio della spazzatura per poi disfarsene definitivamente a fine giornata lavorativa, buttando il tutto nel cassone in legno posto in un angolo della piazza o della via dove operava il Barbiere. 
Nelle botteghe da Barbiere, c’erano altre due cose che erano caratteristiche del tempo: la Sputacchiera, e l’Acchiappa mosche appeso al lampadario.  Due cose che, ai tempi odierni, per una questione igienica, sarebbero state sicuramente vietate, ma che per i tempi che furono, il loro uso si rendeva essenziale ed importante. La Sputacchiera non era nient’altro che un contenitore quadrato, circolare o rettangolare, in ferro, in legno o in metallo smaltato, riempito con sabbia o cenere e posta al lato della poltrona di lavoro. Soprattutto nei periodi invernali, i residui di catarro espettorato sonoramente dai vari clienti, sotto gli occhi esterrefatti di tutti i presenti, veniva sputato proprio in questi contenitori.
Immagina per un attimo la scena di uno che espettora muco tossendo, sputato dentro la sputacchiera difronte a tutti gli altri clienti; era un vero schifo, da … voltastomaco.
Soprattutto quando, nonostante la buona volontà, non veniva centrato nemmeno il contenitore e il muco si spargeva per terra. 
Anche un eventuale moccio improvviso veniva riversato in questa sputacchiera e da qui, la presenza costante di abbondanti mosche e insetti di ogni tipo.
Nessuno si lamentava più di tanto, perché poteva capitare a tutti di dovere espettorare o di doversi soffiare il naso dentro la sputacchiera; era una prassi.
Se questo scempio poteva in qualche modo essere tollerato perché il Barbiere era magari attento a mantenere l’igiene nella sua bottega; l’Acchiappa Mosche, appeso in prossimità del lampadario, era ancor più insopportabile, perché il suo ricambio, non avveniva in giornata così come magari veniva ripulita la sputacchiera, ma durava mesi, ed in alcuni casi . . . anni.
Tra le altre cose, quest’oggetto non era di uso specifico del Barbiere, ma anche i Sarti, i Calzolai e molte altre botteghe artigiane lo usavano per difendersi da mosche ed insetti che, abbondavano ovunque e che disturbavano il lavoro. 
L’acchiappa mosche era contenuto in un involucro a forma di cartuccia, che si apriva da una parte e si srotolava, allungandosi a forma di spirale, per quasi un metro di lunghezza. 
Veniva fuori un nastro giallo, appiccicoso, sul quale, rimanevano attaccate le mosche che provavano a posarsi perché attratti dall’odore emanato da questo nastro. 
Puoi solo immaginare che, alla lunga, diventava una esposizione vera e propria di insetti di varia specie e di varia dimensione che, al solo vederla, poteva creare fastidiosi problemi di stomaco nelle persone che la osservavano.
Il vantaggio era comunque che, durante il lavoro, non si veniva infastiditi dagli insetti.
 
 Giochi da ragazzi, per sentirsi forti e diventare grandi
Osservando le tue espressioni, ti trovo ancora di più interessato a queste futili cose che ora ti sto raccontando che non a quelle che ti ho già raccontate e che magari hanno avuto maggiore importanza in questa comunità.
A volerla dire tutta, di futili cose ce ne sarebbero ancora tante da raccontare e che, se ci pensi bene, tanto futili non sono.
Devi sapere che in questo paese, quello che non è mai mancato è stato il dialogo tra le persone e il buon vivere civile tra i vari ceti sociali che riuscivano a comunicare in ogni modo possibile e sempre nel massimo del rispetto dell’uno verso l’altro.
Dal Barbiere, dal Farmacista, dal Calzolaio, dal Sarto oppure all’aperto seduti sul muro del passo, o su quello di Gornelli od anche in Villa comunale o passeggiando per le vie del centro del paese, era sempre possibile discutere sui problemi del mondo.
Ogni angolo del paese era un posto valido per sedersi e scambiarsi opinioni, sentire storie di guerra raccontate da chi la guerra l’aveva combattuta o da chi la aveva semplicemente vissuta senza combatterla, o di sacrifici affrontati svolgendo il proprio lavoro, o di gesti eroici compiuti nel nome della Patria.
Ed allora, le trincee dei percorsi di guerra diventavano strade sulle quali tutti ci si poteva trovare per essere assaliti da un ipotetico nemico col fucile in mano; erano sempre gesti di eroismo impossibili da immaginare per chi, come noi ragazzi, avevamo vissuto solo la vita del nostro paese che si sviluppava e si concludeva, nella maggior parte dei casi, entro i confini del paese.
Si potevano immaginare solo per astrazione certe situazioni, ma in ogni caso la mente dei più giovani e dei giovanissimi, costruiva e rimuginava pensando a come formarsi a quel tipo di coraggio, come si poteva simulare e dove ed in quali modi si poteva emulare.
Si voleva ad ogni costo diventare grandi ed eroici come loro, non partecipando a battaglie e a combattimenti di vera guerra, perché la guerra era ormai stata combattuta, ma si voleva forgiare il carattere individuale all’eventuale confronto con un possibile, ma ipotetico nemico.
Si inventavano così le guerre tra rioni, combattute fra bande costituite solo e soltanto da giovani e ragazzi nati nel rione di appartenenza, attrezzati con pistole fatte di foglie di fichi d’India “pittindiani”, appiccicose e viscide, quando venivano sagomate per fargli assumere la forma di pistola vera e si impugnavano per puntarle contro l’avversario.
Altre armi erano costituite da archi in legno con frecce anch’esse in legno, che però, quando lanciate, non potevano fare tanto male da poter compromettere l’integrità fisica dell’avversario.
 Lo strumento che simulava perfettamente i colpi di una Pistola era invece “il Battacchio” fatto di legno di sambuco, lungo dieci – quindici centimetri, ottenuto togliendo da questo la parte centrale più molle, levigandolo per bene sia all’esterno che all’interno, per poi introdurvi in esso un batuffolo di Canapa (Stuppa), ammorbidita con saliva abbondante, e spingendolo nell’interno con l’uso di uno stantuffo.
Spingendo con forza sullo stantuffo fino a termine della sua corsa, fuoriusciva dall’altra parte la pallina di canapa emanando un botto assimilabile a quello di una pistola.
Alcuni ragazzi erano molto bravi a simulare questi botti anche con la bocca, spingendo la lingua contro il palato e facendola schioccare con forza provocando un botto udibile a distanza.
Del resto, si trattava solo di giochi e di battaglie combattute con in palio “il nulla”.
In questo gioco, per dare possibile la vittoria, era necessaria la massima lealtà dei componenti le bande avverse, perché bisognava riconoscere da soli lo sparo o la freccia scagliata verso di loro, che era magari partita per prima, e che li escludeva dal resto della lotta.
Le somme si traevano solo alla fine quando, con accanite discussioni che mai hanno degenerato, si discuteva sul confronto faccia a faccia avvenuto tra i vari componenti dei gruppi e che ne stabilivano i vincitori dei vari confronti diretti.
La vittoria finiva con l’essere ad appannaggio del gruppo che aveva realizzato un numero maggiore di vittorie nel confronto diretto.
Per le Battaglie si faceva di tutto, per renderle simili a quelle raccontate dai reduci di guerra e così, ai combattimenti frontali che si svolgevano lungo le vie del paese, c’erano anche quelle che si combattevano usando i tombini presenti nel paese che raccoglievano le acque piovane e che comunicavano tra loro attraverso canali.
Bastava alzare la grata di uno di questi tombini, infilarsi dentro e percorrere i canali per l’intero loro percorso.
Diventavano queste le trincee di guerra, attraversandole da un capo all’altro, strisciando a pancia in giù, entrando magari nel tombino del passo e sbucando in quello di via Nazionale o, dietro la chiesa dell’Immacolata dopo essersi infilati nel tombino di Piazza Immacolata.
Ci si infilava dentro così come fa oggi uno speleologo, e dal tombino del Passo posto all’angolo di casa Vito Frijia, si poteva sbucare in quello posto in via Nazionale. Prendere il nemico alle spalle, così come si raccontava accadesse in guerra, era strategia di vittoria e, nella maggior parte dei casi era questo che stabiliva la vittoria finale del gruppo del rione che ci riusciva.
Le guerre combattute all’aperto ed in pieno giorno, diventavano le più pericolose perché, i più temerari ed i più spregiudicati e violenti, usavano le fionde come arma di combattimento e, ne converrai anche tu che in questi casi, inevitabilmente, qualcuno rientrava a casa grondante di sangue e con la testa rotta.
Capitava di doversi scontrare all’interno dei cunicoli che congiungevano i vari tombini, perché entrambi i capi gruppo avevano deciso di utilizzare lo stesso canale entrando da due posti diversi, e in questi casi, era un vero problema stabilire chi fosse il vincitore soprattutto perché la visibilità all’interno era ridotta al minimo.
In questi casi, era un problema uscire all’aperto perché, nello spazio angusto dei cunicoli, non ci si poteva rigirare per manovrare a proprio piacimento, ma bisognava tornare indietro a carponi e “in retro marcia”.
Quando il gruppo era consistente e tutti si trovavano contemporaneamente all’interno del cunicolo, uno dietro l’altro, capisci bene che era ancor più problematico tirarsi fuori.
In ogni caso, bisognava dimostrare giorno dopo giorno di essere sempre più “uomini coraggiosi” anche se l’età non era ancora quella giusta per poterlo diventare.
Si richiedeva sempre più maggiore coraggio da dimostrare nei confronti dei vari amici che formavano i vari gruppi.
Non era certamente il rito di affiliazione in uso nei gruppi di mafia, ma un rito al quale ogni componente doveva sottoporsi per potere occupare un posto sempre più prestigioso all’interno del gruppo di appartenenza.
Sorsero così soprannomi come Attila o Brenno, condottieri e nemici della antica Roma, il primo noto come “Flagello di Dio”, ed il secondo per avere messo a sacco Roma, per definire il proprio capo rione.
Essere denominato in tale modo, costituiva il massimo del riconoscimento per il condottiero del gruppo del rione.
Oggi, come hai potuto vedere pure tu, Petruzzu mio, l’aspetto assunto dal paese è invidiabile con costruzioni di nuova generazione, e strade pavimentate con sampietrini disposti a mo’ di mosaico che rappresentano figure architettoniche piacevoli a vedersi, per cui, le cose di cui ti sto parlando ti sembreranno da “età della pietra”.
I tombini sono ormai coperti con pesanti coperchi in ghisa, ed i cunicoli non sono più accessibili facilmente come lo erano ai miei tempi.  In realtà, tutto faceva parte del “gioco dei ragazzi” che mettevano in pratica le loro fantasie sfruttando ogni risorsa presente sul territorio, utile ad aiutare a diventare forti, furbi, coraggiosi e non timorosi di fronte a qualsiasi pericolo di vita.
Per avertelo fatto vedere, devi avere sicuramente presente l’arco costruito per far defluire l’acqua piovana sotto Piazza Immacolata e che mette in comunicazione via Tre Canali con la zona posta dietro la quarta Baracca costruita nella stessa Piazza.
Ebbene, raggiungere ai miei tempi le tre fontane poste in località Tre Canali, non era cosa semplice e facile come lo è oggi perché, soprattutto di notte e al buio, era pericoloso raggiungerle in quanto bisognava percorrere una mulattiera che si sviluppava fiancheggiando il Burrone del Passo.
Mi spiego meglio: dove oggi sorge il Palazzo della Banca, c’era una duna scoscesa su cui poggiava il muro del passo che spesso veniva usata come discarica dagli abitanti vicini e dalla quale bastava spostare un masso per farlo rotolare e fargli raggiungere il viottolo in basso che conduceva alle tre fontane lì dove si trovava ubicato anche il Macello.
La strada non si fermava alle fontane ma proseguiva per servire tutti i proprietari delle terre dell’agro comunale di Riola.
Una delle tante prove di coraggio, consisteva nel doversi recare di notte a Tre Canali, munito di un contenitore che bisognava riportare in piazza, pieno d’acqua, dimostrando così di avere avuto coraggio e di aver vinto la paura. 
Le scene venivano preparate da tutti i componenti il gruppo perché bisognava rendere ancora più ardua l’impresa, più difficile e pericoloso il percorso, più di quello che in realtà fosse.
Per raggiungere questo obiettivo, qualcuno doveva infilarsi sotto l’arco per riprodurre quei rumori che potessero incutere ancor più paura nel designato a sostenere questa prova di coraggio. 
Altri avevano l’incarico specifico, a rischio di serio pericolo, di fare rotolare massi lungo la scarpata del burrone del passo mentre altri ancora percorrevano via Mulino per raggiungere la fontana, senza farsi vedere, dalla parte superiore, riproducendo rumori strani che mettessero paura al malcapitato del momento.
Ci si inventava di tutto, Abbaiare di cani, grugniti di maiali, ululati, fischi strani e rumori di civette ed uccelli notturni, voci cavernicole che sembrava arrivassero dall’aldilà; il tutto sotto l’abile regia del capo gruppo. 
C’erano altre prove di coraggio, legate soprattutto allo stato di abbandono in cui, determinate zone del paese si venivano a trovare.
Lo stato di degrado e la scarsa pulizia in cui erano tenute determinate zone del paese, costituivano proprio i posti scelti per far prendere forma a queste “prove di coraggio”.
Così, la zona del cimitero diventava l’ideale campo di battaglia per dimostrare quel coraggio che consentiva maggiore considerazione dal gruppo.
Bisognava raggiungere il Cancello del cimitero, toccarlo con le mani, raccogliere un fiore o un ramoscello di corona che di solito si trovavano poggiate al muro esterno, e rientrare con questi trofei nel gruppo.
L’oscurità, le solite voci strazianti emanate ad oc da parte di componenti del gruppo preposto a fare questo, e i fosforescenti luccichii estivi di lucciole che, con abilità si facevano passare per anime vaganti, rendevano la scena da film dell’orrore, per cui, non tutti erano disposti ad affrontare questa prova. 
Le notizie di riuscita o meno di una determinata prova di coraggio, si diffondevano nella comunità con rapidità impressionante così, il giorno dopo era di dominio pubblico l’esito di questa, soprattutto tra le ragazze che frequentavano le scuole da ricamo dalle “Maistre”, che apprezzavano o ridevano sull’esito, soprattutto se qualcuna di queste ragazze era o no, interessata a questo personaggio sentimentalmente. 
Come dire, “erano punti in più” guadagnati agli occhi dell’amata e nei confronti delle ragazze, che prendevano in maggiore o minore considerazione questi esiti, lasciandosi a volte condizionare nelle loro scelte amorose.