Racconti di Povertà

Racconti di povertà e di Cooperative

 Asini e Fabbri, Infissi e Falegnami, Olive e Frantoi, Grano e Mulini, Lino e Telai, Stoffe e Sarti, Libri e Biblioteca, Analfabetismo e Scuole, Panni sporchi e Fiumare, ma . . . negli anni che hanno preceduto l’ultima guerra, fame diffusa, sofferenza fisica e stenti.
Questo, è quanto verbalmente ci hanno tramandato tutti quelli che ci hanno preceduto.
Come si possono oggi comprendere le grandi fatiche cui erano sottoposte le donne nella raccolta delle olive, o nella cura della tela, o ancora nell’accudire alle faccende domestiche che non finivano col rassettare la casa, ma continuavano con l’accudire agli animali (maiali, galline e conigli), e il dedicarsi alla cura dei propri figli.
Per non parlare di quelle cui erano sottoposti gli uomini obbligati a recarsi nelle campagne della marina a piedi o a dorso di un asino e lavorare di zappa per un’intera giornata con la fatica finale di dover rientrare a casa, ancora a piedi, ripercorrendo le strade impervie e in salita del paese.
Scalzare i vigneti, seminare il grano, piantare barbabietole o mais, estirpare le Barbabietole, potare le piante d’ulivo, potare le vigne, passarle di rame o di zolfo, coltivare gli orti per potere poi mietere, vendemmiare e raccogliere i vari frutti affrontando ulteriori fatiche fisiche.
La fame si combatteva proprio affrontando queste grandi fatiche fisiche ma, chi non possedeva terreni da coltivare e non sapeva svolgere un mestiere redditizio, era purtroppo soggetto a patire la fame e, affrontare le lunghe giornate, non era per niente semplice.
Bisognava in qualche modo industriarsi per superare il presente, perché se questo avveniva positivamente, c’era tempo anche per pensare alla giornata prossima futura e alle successive.
 Ti racconto adesso ciò che mi è stato raccontato oralmente da chi, questi tempi li ha vissuti, e ti parlerò di personaggi capaci di aguzzare l’ingegno riuscendo poi a risolvere, al momento, i suoi problemi alimentari.
Significativa la storia di un fantomatico sarto-barbiere (Domenico Galera (?)) che, dotato dello stretto necessario, o quasi, per assolvere a questi lavori, si recava di buon mattino in marina per trovare quei “Massari” che da tempo avevano deciso di stabilirsi nella piana, nella speranza che qualcuno di questi, gli commissionasse una “barba” o un paio di pantaloni.
Era, per così dire, il Sarto-Barbiere a domicilio ma, con un fine diverso e ben preciso, così come cercherò di farti capire a breve.
L’opera prestata in aperta campagna, all’ombra di una pianta di fico o di gelso, con un rasoio relativamente affilato, con acqua attinta da un fosso, senza sapone da barba e senza tovaglia addosso, fruttava più di quanto potesse fruttare la stessa opera prestata in Bottega.
Nessuno portava soldi in tasca anche perché non tutti ne possedevano e, men che meno quando si pascolava il gregge o le mucche nelle aperte campagne per cui, la ricompensa per il servizio ricevuto, non avveniva mai in soldi ma, in derrate alimentari: fagioli, ceci, lupini e legumi di ogni genere.
Ciò che sembra apparentemente svantaggioso, costituiva invece un vantaggio per il D. G. (?) in quanto, le quantità di legumi donati, non erano mai date in misura adeguata al servizio ricevuto, e inoltre, gli stessi legumi variavano e si arricchivano di tutti quei prodotti che “l’orto di masseria” produceva.   
Ed erano tanti.
 Se la stessa operazione la eseguiva a più clienti, incontrati apparentemente per caso, il signor D. G. (?), rientrava a casa, a sera, con un bottino di legumi tali da potere affrontare l’intera stagione invernale.
A questo fare si dedicava sistematicamente ogni anno anzi, quando ha scoperto che ciò risolveva i problemi di sopravvivenza invernali, suoi e dell’intera sua famiglia, l’anno successivo si organizzava ancora meglio, portando con sé la figlia per dargli una mano nel trasporto delle derrate ma, soprattutto contenitori (ciurmiegghj – piccoli sacchi o federe di cuscini), sufficienti a contenere le intere donazioni che riceveva.
Un detto significativo: “Fha cchjiù na Viertula ca na Masserìa” (rendono di più le ricompense ricevute che una masseria che produce). 
Un aneddoto particolare.
 Ad una solita visita ai soliti Massari della piana, uno di questi gli commissiona un paio di pantaloni nuovi da indossare per la campagna ma, non avendo con sé misurino e penna da potere annotare le misure, il D. G. si prende l’incarico rispondendo che avrebbe tenuto in mente le sue dimensioni fisiche e che ciò gli era sufficiente per portare a termine il suo lavoro.
Ad opera completata, D. G. parte per la consegna recandosi a piedi e di prima mattina in marina dove il suo committente passava abitualmente le sue giornate lavorative.
Alla sua vista, saluta doverosamente e come risposta gli viene commissionata una rapida rasatura di barba.
Nel modo più rudimentale possibile assolve a quest’operazione e, una volta terminata la rasatura, comincia la fase della ricompensa abituale con i soliti legumi prodotti in loco.
“Na jiunta de poseggha gialineggha, na jiunta de poseggha jianca, na jiunta de ciciari, na jiunta de cannellinu, na jiunta de borlotti, na jiunta de . . . . e lu ciurmiegghu era chjinu”
 (Una manciata di faggiola rossa, una manciata di faggiola bianca, una manciata di ceci, una manciata di faggiola cannellini, una manciata di fagioli borlotti, una manciata di . . . e il sacchetto si riempiva).
Soddisfatto di quanto ricevuto, dimentica il motivo principale per cui era andato da quelle parti e, assolti i saluti di commiato, il D. G. si allontana proponendosi di ritrovarsi una prossima volta.
Aveva già percorso buona parte di strada del ritorno, quando improvvisamente si ricorda di non avere consegnato i pantaloni cuciti per la persona dalla quale aveva ricevuto la commessa e che aveva salutato poco prima. 
Con fare sorpreso, torna sui suoi passi e si ripresenta al suo “benefattore” sventolando i pantaloni nuovi che aveva dimenticato di consegnargli.
Anche se in aperta campagna, lo prega di indossarli per verificarne la misura e come calzavano una volta indossati. 
Senza pensarci su due volte, si nasconde dietro un albero e indossa i pantaloni nuovi. 
A suo dire, “gli stavano a pennello” e ciò era avvalorato dalla persona che li indossava, anche se non si poteva guardare . . . allo specchio. 
Il fatto era spesso ricordato da D. G., non tanto per la ricompensa ricevuta, quanto per i pantaloni da lui cuciti che, senza disporre di misure, “’nci stacìanu a pinniegghu” li aveva cuciti … alla perfezione. 
 Non era l’unico che viveva di espedienti perché, in qualsiasi altra attività lavorativa, le ricompense per l’opera prestata, era assolta in massima parte in derrate alimentari anzi, spesso si preferivano queste al pagamento in soldi. 
Rimane famosa una poesia dedicata da un noto poeta locale ad una donna di alta società curinghese della quale, nei vari racconti mi hai già sentito parlare. “Donna Amelia”, moglie del più noto Don Francesco Antonio Bevilacqua, appartenente alla più ricca e famosa famiglia curinghese, era l’oggetto di quest’ode, riverita e ringraziata per avere più volte con la sua benevolenza placato la fame di questo poeta.  
Sarto di famiglia, frequentava il palazzo col fratello e i figli, anch’essi sarti, per soddisfare le esigenze vestiarie dell’intera e numerosa famiglia Bevilacqua.

8 Ottobre 1927

Alla morte di una nobile Signora

D. Amelia Romeo

Pietosa povertà a cui non invano

L’obolo chiedevi a quella Pia Signora

E la gentile benefica sua mano

Ti prodigava dolcemente ogn’ora.

Avvezzo tu a quello obolo quotidiano

Tendi la carità chiedere ancora

Ma nel palazzo un cambiamento strano

Purtroppo scorgerai che ti addolora

Col solito sperare Sali le scale

E il passo muoverà verso la porta

Tutto è silenzio nelle grandi sale

La serva che di te si sarà accorta

Presa dal pianto e rimanendo male

Ti cennerà che la Signora è morta.

   Giuseppe Vono

Abiti su misura per conferenze, sia per uomo sia per donna, abiti da lavoro e biancheria intima veniva da questi sarti cucita e fornita al palazzo nel più breve tempo possibile, con le varie fasi di misurazioni, necessarie (?) in corso d’opera, che si ripetevano più del dovuto, non tanto per l’esigenza di verificare le misure dell’indumento che si stava realizzando, quanto per la presenza fisica che induceva la padrona di casa “donna Amelia”, dotata di grande bontà d’animo, a donare sempre qualcosa da mangiare, non solo per chi era preposto in quel momento ad assolvere alla verifica della misura ma anche per la famiglia che si trovava a casa.
Alla sua morte, in segno di gratitudine, gli dedica un’ode rimasta ancora inedita, che esalta la bontà di questo personaggio.
Questi due aneddoti, da soli, riescono a farci capire quale fosse il problema primario di vita in questi periodi, ma devi sapere che, in ogni caso, Curinga disponeva di un elenco, stilato dai Medici condotti del tempo, denominato “Elenco dei Poveri”, ai quali, un pur piccolo sostegno veniva fornito dall’ente comunale e da altri enti che operavano al di fuori di quest’amministrazione.
La spartizione dei terreni comunali della marina ai contadini di Curinga con diritto di coltivazione, da sola, non bastava, perché bisognava disporre di sementi per poter mettere a frutto questi terreni. Grano, Orzo, Lupini, Mais ecc., andavano prima seminati per poi essere raccolti e, i semi, non tutti li potevano comprare.
Sorse così, la cooperativa del Littorio già cooperativa Unione e lavoro, cioè la “Banca del Grano” (il Monte del Grano), ubicato all’interno del palazzo Bevilacqua, al quale i contadini che disponevano di terreno seminativo attingevano per mettere a frutto i loro terreni. 
Naturalmente il quantitativo di grano, veniva concesso dietro impegno di dover restituire, a raccolto avvenuto, lo stesso quantitativo più l’interesse, valutato anch’esso in quantitativo di grano. Chi lo preferiva, poteva versare la quota dovuta, nell’equivalente in denaro.
Così facendo, si ricomponeva anno per anno il “capitale” Monte del Grano, e si provvedeva a vendere il grano eccedente, corrispondente agli interessi maturati ai vari mulini del posto, che lo trasformavano in eccellente farina per essere poi rivenduta direttamente ai vari clienti o trasformata in pane nei vari forni ed essere commercializzato sulla piazza.
Gli utili, al netto delle spese sostenute, venivano in gran parte distribuiti “ai Poveri”, attingendo proprio a quell’elenco diligentemente stilato dai Medici Condotti. Il potere decisionale era in mano al gruppo dirigente della cooperativa che, nel massimo della trasparenza, distribuiva ciò che aveva raccolto a tutti i bisognosi riportati nell’elenco. Ti avevo raccontato dell’esistenza delle buche di via Ospizio dentro le quali venivano conservati sacchi di grano usato poi nella semina delle annate successive; ebbene, in Palazzo Bevilacqua, di buche, nell’atrio, all’ingresso, ce n’erano ben quattro ed altre si trovavano sul lato destro e sinistro, a piano terra, del palazzo.
Erano alcune di queste buche che contenevano le riserve della “Banca del Grano”, con l’addetto preposto che provvedeva, prendendo opportuna nota, a distribuire la quantità che gli era richiesta.  
Precursori di quest’opera cooperativa (e della successiva denominata “La Concordia”) furono:
 il padrone di casa Don Bernardo Bevilacqua (dal quale è partita l’idea principe), dal Dott. Diego Zimatore, dall’Arciprete Domenico Bianca, dal prof. Domenico Anania, dal sig. Frijia Bruno, da Don Battista Lo Scerbo, Dal Notaio Panzarella, dal Dottor Fortunato Perugini, da Don Pietro Gullo (esattore delle tasse), dal Maestro Vincenzo Sgromo, da Giovambattista Gaudino (segretario e contabile della cooperativa), dal sig. Angelino Currado, da Giovambattista Cefaly, dal sig. Bruno Serrao, dal sig. Domenico Grasso (magazziniere) addetto anche alla distribuzione, ed altri dei quali, non è facile ricordarne il nome.
Uomini ai quali va riconosciuto il merito di essersi ingegnati per la comunità curinghese e di avere contribuito con il loro operare, all’economia e al progresso dell’intero paese. 
Che a soffrire e a patire la fame erano in tanti lo dimostra anche il modo di vivere di determinate persone, assoggettate al sacrificio e costrette a vivere in condizioni, a dir poco, disumane o, poco dignitose. 
Gli anni del ’36 e . . . dintorni, descritti come” malannate”, furono anni di tremenda fame e sofferenza, ma pur essendo anni molto lontani dai nostri giorni, bisogna ricordarli lo stesso.
Non tanto per sopravvenuta nostalgia, perché noi non li abbiamo vissuti direttamente, tanto per evidenziarne e ricordarne certi aneddoti a noi trasmessi verbalmente, da noi largamente usati e dei quali non si conosce la reale provenienza.
Quante volte abbiamo commentato pronunciando la frase “chi casa scommida”, un detto che ha una sua origine, che parte proprio da questi anni tremendi e difficili in cui, la maggior parte delle famiglie viveva, si moltiplicava e cresceva in un unico ambiente, poco spazioso, all’interno del quale si svolgevano tutte le attività familiari. 
Letti che magari occupavano, di sera, l’intera superfice calpestabile, con tre pietre al centro della stanza a costituire un tripode sul quale si cucinava e con il cucinato che si consumava comunitariamente seduti sul letto e nell’unica pentola posta sul fuoco. 
Bastava poi slacciarsi le scarpe (per chi li possedeva), stendersi all’indietro ed essere già pronti per dormire in modo da riposarsi ed essere pronti per le fatiche del giorno successivo.
Quando le famiglie erano numerose, i figli più grandicelli erano subito indirizzati nei lavori dei campi, e in questi luoghi venivano spesso costruiti dei capanni che costituivano le dimore permanenti per quelle persone addette alla cura e alla coltivazione dei terreni loro affidati.
In realtà, alcune persone non erano nemmeno proprietarie dei terreni che coltivavano perché questi appartenevano sempre alle solite famiglie bene di Curinga come: i Bevilacqua, i Panzarella, i Perugini, e così via dicendo.
Questi ultimi in particolare, erano i proprietari di località come: Nucari, Cruceggha, Gurnali, Feudo, Samboni ecc., terreni altamente produttivi, adibiti a coltivazione intensiva sfruttando la mano d’opera dei contadini locali e l’abbondanza di acqua ivi presente. 
I pomodori di Samboni ad esempio, erano considerati una “specialità” del luogo, così come oggi sono considerati tali i Pomodori di Belmonte, o le Cipolle di Tropea o il Vino di Cirò, una cosa cioè che, oltre ad essere prettamente legata al luogo, è anche pregiata.  
 Per coltivare questi pomodori famosi in località Samboni, Don Basilio Perugini, proprietario di questa località, aveva preposto un Colono, il sig.
Lo Berto (?) da Curinga, che per assolvere al meglio l’impegno preso, si faceva aiutare nel lavoro dal figlio Tommaso (?), ormai grandicello, che viveva addirittura sul posto, su questa terra, e si recava al paese solo in occasioni particolari come le feste di Natale, Pasqua, Fiera dell’Immacolata, sedici Luglio, e qualche sporadica Domenica. 
Per il resto Tommaso, stava sempre a Samboni, dormiva in un Pagliaio a Samboni, mangiava sul posto e si accontentava di ciò che il posto offriva.
Si coltivava ogni tipo di ortaggio ma, ciò che caratterizzava questo posto, era proprio la produzione dei “Pomodori di Samboni”. 
Un giorno, quando i primi pomodori cominciarono a rosseggiare e alcuni erano già pronti al raccolto, furono accuratamente scelti dal padre, sistemati per bene in un paniere, e mandati come primizie al palazzo Perugini col figlio Tommaso che, poverino, mai aveva frequentato questa zona del paese, ne’ tantomeno il palazzo.
Il Padre gli indica l’ubicazione del palazzo del padrone e gli spiega per filo e per segno ciò che avrebbe dovuto fare per farsi ricevere. 
Gli disse: devi entrare nel portone, salire la scala sulla destra, bussare alla porta che ti troverai difronte, e una delle serve verrà ad aprirti la porta. 
Così fece; s’incammina per il paese e chiedendo informazioni, raggiunge finalmente il palazzo.
Varca il portone, sale la scala, bussa alla porta e, così come il padre gli aveva detto, una serva gli apre la porta. 
Alla vista dei Pomodori di Samboni, la serva estasiata esclama a voce alta:
“Signurinu, Signurinu, arrivaru li pumadora de Sambuni”
Tumasi” viene accolto in casa proprio dal Padrone di casa Don Basilio che gli dice: entra ragazzo, entra; e lo invita a seguirlo per il “lungo corridoio” per raggiungere la cucina.
Quando Tommaso, attraversando il corridoio vide il lusso di tutte quelle stanze, con ognuna dedita alle proprie funzioni, (salone, stanza da letto, cucina, corridoio, ecc.), pensò subito alla sua di casa, che era costituita da una unica stanza che assolveva a tutte le esigenze di famiglia e, spontaneamente esclamò: “Signurinu, chi casa scommida chi aviti”, perché, chiese spiegazioni Don Basilio.
A la casa mia, “basta mu alluonghi na manu pemmu pigghji na cosa, ccà, sulu mu sbacantati nu panaru aviti mu hfaciti cientu metri de caminu”.
(A casa mia, basta allungare una mano e puoi prendere qualsiasi cosa, qui, solo per svuotare un paniere di pomodori dovete percorrere cento metri, alludendo chiaramente al lungo corridoio).
La scena si concluse con un sorriso ed una adeguata comprensiva carezza che Don Basilio porse a Tommaso, ancora sorpreso e spaventato da ciò che aveva appena visto.
Il fatto venne raccontato, con discrezione da Don Basilio, e ciò costituiva un motivo per farsi due risate nelle occasioni di convivialità con gli amici.
I primi mezzi di Trasporto a Curinga
 Vedi nipote carissimo, su questa collina posta a 380 metri sul livello del mare, sorge Curinga, con i suoi 6800 abitanti circa, e da questa posizione, hai potuto notare che si domina l’intera piana del Lametino. Oggi, il paese si può raggiungere da ben cinque punti d’accesso diversi, percorrendo le ben note vie di comunicazione quali:
la Via del Mare, per raggiungere il Soccorso o Gornelli (salendo cioè da Acconia o provenendo da Vibo, Pizzo e Montesoro); La Via Alcide De Gasperi, per raggiungere l’incrocio con strada proveniente da San Pietro (scendendo dalla nostra montagna provenendo da Jacurso o Filadelfia);
La Via Nazionale per raggiungere l’ex zona del Piano delle Aie (provenendo da San Pietro a Maida); La Via del Mondezzaio, per raggiungere l’ex Caserma (provenendo da Lamezia Terme o da San Pietro Lametino); La Via San Giovanni Precursore, per raggiungere la sede Municipale del Comune (Provenendo da Lamezia Terme o da San Pietro Lametino); da incrocio con Via Maggiore Perugino, per raggiungere il Polivalente (Provenendo da Lamezia Terme o da San Pietro Lametino);
Tutte strade percorribili abbastanza facilmente perché ben curate e bene illuminate di notte.  
Non così nei tempi dei quali stiamo ormai da tempo parlando e che si riferiscono in massima parte all’immediato dopo guerra perché, non esisteva ad esempio la via denominata oggi Circonvallazione, così come non esistevano, o per lo meno erano solo dei viottoli o mulattiere, percorribili solo da asini e muli e che conducevano solo nelle campagne vicine, le strade di San Giovanni Precursore e Via Mondezzaio.
 Del resto, i mezzi di trasporto erano costituiti solo da Asini, Muli e Cavalli e questi, dovevano condurre, nella maggior parte dei casi, nelle campagne vicine e, solo rarissime volte e soltanto per alcune persone, nelle città vicine di Pizzo, Vibo, e Nicastro.
Per chi era costretto a partire per assolvere al servizio di leva militare o emigrare, bastava raggiungere la Stazione ferroviaria di Acconia o quella di Santa Eufemia per poter prendere un treno per recarsi a Napoli da dove partivano le Navi che portavano in America, o procedere oltre.
Ti ho più volte detto che negli anni ’40 e ’50, le macchine che circolavano in Curinga si potevano contare sulle dita di una mano e di quelle agricole se ne vedevano ancora di meno.
Per non parlare dei mezzi di trasporto che consentivano di spostarsi negli altri paesi o nelle altre città commerciali vicine come Catanzaro, Nicastro, Pizzo, ecc.
I trasporti di merci, avvenivano tutti con i famosi “Troini”, carri trainati da muli possenti che aiutavano a trasportare derrate alimentari (Sale, Pasta, Farina, Tabacchi, ecc.) o materiali da lavoro (Legname, Cuoio, Ferro, Chiodi, Attrezzi da lavoro, ecc.) da un posto a un altro, consentendo ai negozianti e agli artigiani del luogo di poter svolgere il proprio lavoro e portare avanti la propria attività.
La storia racconta che i servizi di trasporto (Autobus di linea o altro) in Curinga erano inesistenti fino al 1913 quando, anche qui arrivò il primo autobus di linea da Catanzaro.
Lo si evince da una relazione stilata dal Dottor Sebastiano Serrao, Priore della Congrega dell’Immacolata, risalente a questo anno, che riguarda la trasformazione della quarta Baracca di Piazza Immacolata, per adattarla a “rimessa del servizio automobilistico Catanzaro – Curinga” così come viene testualmente riportato.
 Si allargò la porta d’ingresso e si aumentò la profondità con lo scopo di poter ospitare nel suo interno un autobus; così fu fatto. 
Sorgono dubbi circa questa “comunicazione” comunque, esisteva di certo un Autobus che collegava Maida con Catanzaro, ma lo stesso, non arrivava nel paese di Curinga (?). 
Nel nostro paese, intorno agli anni ’40, circolava solo la Macchina dei Bevilacqua, quella del Notaio Panzarella, quella dell’Esattore don Pietro Gullo, e solo in seguito quella del Signor Giacinto Lo Russo e quella di don Peppino Maroncelli, che divenne poi la macchina di noleggio per Curinga.
Questi ultimi due, hanno conseguito la patente di guida durante il servizio Militare, ed una volta congedati da questo servizio obbligatorio, convertirono le loro patenti militari in patenti civili, e cominciarono a svolgere attività che implicavano la guida di un’automobile.
Don Peppino Maroncelli, prima di fare il Tassista, si mise a guidare la macchina dei Bevilacqua, mentre Giacinto Lo Russo la macchina se la comprò per conto proprio ed offrì un servizio ai cittadini portandoli da Curinga a Maida, dove potevano prendere il Pullman per Catanzaro.
La macchina non era un lusso, ma un mezzo di lavoro utile a trasportare da un luogo ad un altro tutte quelle persone che ne facessero richiesta.
Maida era quindi una meta privilegiata, in quanto sede di uffici quali: Ufficio Registro, Ufficio Imposte, Pretura per dare soluzione ai loro problemi amministrativi e legali.
Quando furono asfaltate le strade provinciali, a Curinga arrivò il servizio Autobus della ditta Nicoletti che collegava il paese con Catanzaro attraversando tutti i paesi che s’incontravano lungo il percorso: San Pietro a Maida, Maida, Jacurso, Cortale, Girifalco, Borgia, San Floro, Roccelletta di Borgia, Catanzaro Marina, Catanzaro Sala e Catanzaro. 
Un Autobus che partiva alle 4,30 al mattino da Piazza Immacolata, per raggiungere Catanzaro non prima delle 8,30. 
Una corsa di ritorno era fissata con partenza da Catanzaro alle ore 14,00 circa per raggiungere Curinga nel pomeriggio alle 17,30. 
L’orario d’arrivo era approssimativamente fissato per le 17,30, non tanto per i tempi di percorrenza stradali di questa distanza che, bene o male, in questo lasso di tempo veniva percorsa, ma piuttosto per le abitudini dell’autista del quale adesso ti racconto ciò che si diceva di lui.
Ogni autobus di linea prevedeva una doppia presenza a bordo, l’autista e il fattorino cioè, la persona preposta alla guida e quella preposta a staccare i biglietti di viaggio dietro pagamento della tariffa stabilita per il tratto da percorrere.
Questo autista, in particolare, aveva l’abitudine di bere almeno un bicchiere di vino, ad ogni fermata dell’autobus, e così facendo, un bicchiere a Sala di Catanzaro, un bicchiere alla Marina di Catanzaro, un altro a Roccelletta di Borgia, un altro ancora alla fermata successiva e così via dicendo, lo stesso, dopo poche fermate non era più in condizioni salubri tali da poter guidare l’autobus a lui affidato.
Così facendo, non solo il tempo si dilatava sempre di più, ma anche l’incolumità dei passeggeri era messa a rischio e a nulla valevano i tentativi del Fattorino per farlo desistere, ricordandogli le sue responsabilità di guida.
La sua risposta era sempre la solita, diceva: “non ti preoccupare, tanto L’autobus la strada la conosce bene e cammina anche da solo”.
Un giorno il fattorino, constatato il suo stato di ubriachezza e verificato che a nulla erano valse le sue prediche, decide di scendere a Maida e di lasciarlo da solo nell’ultimo tratto di corsa.  
Da questo giorno e da quel gesto, l’autista capì la gravità del suo fare, e con grande sofferenza, cominciò a rinunciare a qualche bicchiere di vino bevuto lungo il percorso, fino a riuscire a smettere quasi del tutto o, perlomeno a non bere quando si trovava in servizio.  
La fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60, hanno rivoluzionato tutto il sistema dei trasporti sia per Curinga sia per le zone limitrofe e, l’arrivo del Pullman che conduceva a Santa Eufemia, risolse molti problemi.
Li ha risolti sia per i comuni cittadini che si spostavano verso altri luoghi, sia per i poveri contadini che erano costretti, prima di quest’avvento, a recarsi nella marina di Curinga, a piedi, per poter lavorare i terreni coltivabili lì presenti.
 Era il Pullman dei fratelli Vincenzo e Vito Mazza, con Capolinea Piazza Armando Diaz e diretto per la Piana di Curinga dove, accompagnava quei contadini la cui meta era una delle località site in quest’ampia zona (a lu Cerzitu, a li Serini, a lu Cannitu, a la Gghjioca, a lu Rinusu, ecc.), tutte località dell’agro del comune di Curinga.
Arnesi da lavoro a spalla (Zappe, roncole, accette od altro), venivano sistemati sul bagagliaio posto sul tetto dello stesso Pullman al quale si accedeva attraverso una scala metallica pieghevole, opportunamente fissati con corde; un piccolo bagaglio a mano (Serviettu o Viertula) che conteneva, nella maggior parte dei casi il pranzo della giornata, e tutti in campagna a lavorare di braccia, mietendo, tirando Barbabietole, sbarbando Barbabietole, piantando Mais o svolgendo altre attività manuali.
 I più agiati, alla partenza, usavano consumare il caffè al Moka Bar, mentre la maggior parte, sonnecchiando, occupava posto e s’impossessava delle sue facoltà fisiche e mentali solo man mano che il Pullman si avvicinava al posto di lavoro.
Era un viaggio “con guida turistica”, con qualcuno cioè che commentava ogni fermata ed ogni salita o discesa di passeggeri.
Simu a Gurniegghi e facìmu la prima fhermata pe’ ncunu chi vo’ mu si inghjia na Bumbula d’acqua fhrisca.
In effetti, la prima fermata era a Gornelli, alla fontana, per consentire a qualcuno dei viaggiatori di attingere l’acqua da bere da portarsi appresso e poterne usufruire durante la lunga giornata lavorativa. 
Nella sosta c’era sempre tempo per una preghiera alla Madonna raccomandandosi per una giornata tranquilla e senza “Malistrapunti” (inconvenienti). Simu a lu Suncurzu, e ancora lu sula ha de nescìra.
Abbiamo raggiunto il Soccorso e ancora il sole non è sorto.
Nel viaggio, si cominciavano ad intravedere le prime luci dell’alba quando il Pullman rallentava per affrontare la “Curva de Vurzina”.
Una curva a gomito che impegnava a fondo sia il conducente sia il Pullman stesso perché bisognava metterlo sotto sterzo per mantenerlo dentro la carreggiata stradale, evitando così di fare altra manovra per superare la curva e proseguire oltre.
I commenti non cessavano mai, ed erano ironici e scherzosi, fatti con l’intento di mantenere sveglio qualcuno che ancora sonnecchiava, e per ricordare il posto dove il pullman si trovasse in quel determinato momento. Si nc’è ncunu chi ha mu scinda, arrivammi a lu Ponta.
Quando si raggiungeva la strada Nazionale, qualcuno, soprattutto i contadini impegnati nel lavoro delle terre dei Bevilacqua, cominciavano a scendere per raggiungere la campagna vicina, dove venivano per quella giornata impegnati.
Superato il Ponte sul fiume Turrina, era un susseguirsi di fermate per chi doveva recarsi al Cerzeto, per chi doveva recarsi in località Piana o chi doveva recarsi nell’uliveto di Contrada Callipo.
Qualcuno ricordava: Simu a li Serini, vicinu a lu Mara, a Scarciu e a Mudduni.
Quando il Pullman raggiungeva località Sirene, la montagna posta ormai alle spalle, appariva rosseggiante per l’imminente sorgere del sole, e tra questo luogo e la fermata successiva di località Canneto, la maggior parte dei contadini scendeva dal Pullman per andare a seminare, mietere o piantare qualcosa nelle terre comunali avute in concessione con diritto di coltivazione.
Qualcuno rimaneva ancora sul Pullman per raggiungere “lu Poligunu” quella zona cioè dove si sono sempre coltivate le Barbabietole e dove oggi sorge parte dell’aeroporto di Lamezia Terme.
Il Pullman si svuotava quasi completamente, restavano solo quelli che erano costretti a partire per assolvere al servizio militare, salendo su un Treno per recarsi nelle città nelle quali erano stati destinati, o per avere deciso di partire per raggiungere località ancora più lontane come Napoli, Roma o Milano, per studiare, o per trovare lavoro, o semplicemente per recarsi nella vicina Sambiase o Nicastro per acquistare ciò che al paese non era possibile trovare.
Ti dico semplicemente che le giornate dei contadini venivano scandite anche da queste semplici cose che il viaggio poteva offrire, e tutto si ripresentava nel viaggio di ritorno, quando lungo la strada si raccattavano quelle stesse persone che lì erano scese al mattino.
Un sorriso di un amico, lo scambio di vedute sulla giornata trascorsa, il lavoro eseguito e quello da eseguire confrontato con quello dell’amico seduto accanto nel viaggio di ritorno, bastavano a volte, a consolare e a far superare con allegria la stanchezza accumulata durante la lunga giornata di lavoro.
L’arrivo al paese metteva fine alle fatiche della giornata, ed ognuno rientrava a casa, accolto nella serenità della propria famiglia. Fu negli anni ’60 e oltre che Curinga e gli altri paesi limitrofi, furono invasi dai Pullman di Foderaro, per trasportare i numerosissimi studenti, nelle Scuole superiori della vicina Vibo Valentia o in quelle di Lamezia Terme già Nicastro.