Personaggi di valore
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Personaggi di valore e. . . . tipici del paese.
Un improvvisato Teatro di Piazza

Sicuramente i miei racconti, per te che non li hai vissuti in prima persona, sono esaustivi, ma per me e per quelli come me che li hanno vissuti, mancano ancora di cose e di personaggi dei quali, con la massima discrezione, intendo ora parlarti.
Ad esempio, non ti ho parlato ancora dei personaggi valorosi che hanno operato in Curinga e che hanno contribuito all’evoluzione in positivo della comunità in modo inequivocabile.
Devi sapere che Curinga ha dato i natali a molti personaggi che hanno contribuito alla storia della nazione sacrificando addirittura la loro stessa vita per il bene di questa, ma ha visto anche personaggi più o meno colti che col loro sapere o con le loro particolari manie, hanno contribuito ad alleviare le sofferenze che nei periodi di cui ti sto parlando erano presenti in ogni casa ed in ogni famiglia.
C’è stato chi ha contribuito a formare “Uomini” colti, sicuri e coraggiosi mettendo a disposizione tutta la sua cultura e tutto il suo sapere.
C’è stato anche chi rasentava comportamenti di vera pazzia, chi si divertiva ad ironizzare certi seriosi atteggiamenti di comportamenti di vita umana, chi in modo autoironico, ha messo in gioco se stesso e la sua rispettabilità e chi infine ha affogato nel vino i dispiaceri della vita grama che conduceva.
Vaghi ricordi mi portano alle commemorazioni funebri nelle quali un Epitaffio o discorso funebre veniva da uno dei nostri colti personaggi pronunciato nel ricordo del defunto e ciò si manifestava soprattutto quando a venire meno alla vita terrena, era una persona di una certa importanza ma, succedeva anche nel caso in cui veniva a mancare una persona onesta e lavoratrice, soprattutto se il decesso avveniva in giovane età lasciando prole in giovane età.
La comunità curinghese, in questi frangenti, si stringeva tutta attorno ai malcapitati familiari in segno di solidarietà che esprimeva con la diretta partecipazione sospendendo, se necessario, anche la sua giornata lavorativa.
Ti racconto semplicemente di cosa fossero le commemorazioni funebri di una volta, di quando cioè recarsi al cimitero per far visita ai morti, era un imbattersi tra croci viottoli e cattivi odori dovuti anche alle cattive tumulazioni, che c’era veramente da avere paura e da temere per la propria salute.
Non per niente l’ingresso era severamente vietato ai ragazzi di età minore ai dieci-dodici anni, anche nel caso in cui si era accompagnati da persona adulta.
Tieni presente che le strade per raggiungere questo luogo non erano quelle che hai visto quando ci siamo passati davanti durante il nostro percorso di racconti, ma erano strade sterrate, poco curate, invase da rovi e soprattutto con scarsa illuminazione notturna.
Per renderti un po’ l’idea di cosa fosse questa zona, ti dico che, tra i giovani del tempo, una delle tante prove di coraggio che si chiedevano gli uni con gli altri per dimostrare di essere diventati uomini veri, consisteva proprio nel recarsi di sera al buio, al cimitero, per solo toccare con mani il cancello d’ingresso.
Ciò che c’era di diverso nelle funzioni funebri, era il corteo che, dopo avere assistito alla santa messa nella chiesa Matrice, si snodava per le vie del paese ed accompagnava il defunto percorrendo via Garibaldi, parte di via Nazionale, Piazza Marconi, via San Giuseppe fino a raggiungere la chiesa dell’Addolorata.
In questo posto il Parroco dava l’ultima benedizione ed i partecipanti, in fila e nella massima compostezza, uno per uno stringevano la mano ai familiari, posti anch’essi uno di seguito all’altro, porgendo loro le più sentite condoglianze.
Allo stesso modo si comportavano le donne, con la differenza che loro formavano un lungo corridoio, in mezzo al quale passavano le parenti del defunto, salutando e accogliendo le condoglianze loro rivolte.
Con l’avvento del Carro Funebre e col trascorrere degli anni, il corteo funebre, a Curinga, si è sempre più ridotto, fermandosi non più all’Addolorata ma su via Nazionale, lì dove oggi c’è il Monumento all’Emigrante.
Oggi, il commiato tra familiari e popolazione avviene sul Sagrato della Chiesa Matrice ed in caso di pioggia o di cattivo tempo, all’interno della chiesa stessa.
Ho vaghi ricordi di strazianti epitaffi declamati dalle persone più in vista del paese che rendevano omaggio al defunto, ripercorrendo per sommi capi ciò che è stato della sua vita terrena, elogiandone soprattutto l’aspetto morale.
Ciò, era molto apprezzato sia dai familiari che dalla comunità.
Dopo questi macabri aspetti di vita comunitaria, voglio adesso rallegrarti raccontando di altri personaggi di tutt’altro genere e di tutt’altra natura.
In questa escursione mi limito, però, a riportare solo le iniziali anagrafiche di questi personaggi, perché facilmente riconoscibili ed individuabili, e ciò, anche se sono morti da molto tempo, non è, in certi casi rispettoso.
Qualcuno si limitava solo a dare “relativo” fastidio ai normali cittadini manifestando le sue manie entro i limiti della decenza e del normale comportamento civile.
Si manifestavano con battute piccanti ma non volgari, alcune volte per farsi notare ed altre per rendersi spiritoso; tutto però, nei limiti della decenza.
Volgari erano invece le filastrocche che Ceneviva Emilio (mastru Miliu, Becchino di Curinga) sciorinava quando veniva stimolato da richiami anonimi che si palesavano da dietro porte socchiuse o dentro botteghe artigiane o da ragazze un po’ più spregiudicate e spiritose di altre. La richiesta era sempre la stessa: (“a Milio. . .ti ricordi?).

Era di aspetto tetro, ma intelligente e capace di scrivere e relazionare su contenziosi proposti poi al Pretore della vicina Maida che li apprezzava tanto da indurlo a proferire poi, con maggiore serenità, la sentenza sull’oggetto del contendere.
Era uno di quelli che, in modo quasi del tutto autodidatta, ha imparato a leggere e scrivere quando, in Curinga e nel meridione in generale, l’analfabetismo imperava sovrano.
Camminava col busto ricurvo, frutto degli anni che lo appesantivano e che si portava addosso, con due grosse chiavi appese alla cintura dei pantaloni che, col suo camminare dondolante, tintinnavano. Era spesso un fare volontario, un modo per fare sentire la sua presenza e quando si accorgeva che nessuno gli dava retta, metteva in atto una tosse cavernicola che era per tutti inconfondibile; tutti dicevano: c’è “mastru Miliu”.
Era questo il fatidico segnale da cui partiva da un vicolo qualsiasi il primo: “a Milio, ti ricordi”? Rispondeva sempre in modo accorato e a voce alta: si, mi ricordo; mi ricordo quando a Salici (Grillo, la carrera de Pagghjietta, a Malìa, a Trungari, ecc., tutte località dell’agro di Curinga), e costruiva una scena pornografica di coinvolgimento tra lui, personaggio principale della scena, e la malcapitata di turno che veniva rappresentata come la peggiore delle prostitute.
Nel suo dire e nelle sue storie al momento costruite, non ha mai avuto l’accortezza di limitare i termini o di moralizzare i fatti anzi, calcava spesso la mano e a volte, più del dovuto.
Ciò che a queste scene seguiva, te lo lascio solo immaginare, perché tutti indistintamente, ma soprattutto le donne, sia sposate che non, ridevano a crepapelle con la evidente soddisfazione di mastro Milio che si allontanava sorridendo con disprezzo.
Le volgarità mimetizzate, venivano fuori da altri personaggi che hanno vissuto in Curinga e che erano considerati i più grandi bevitori di vino esistenti nel circondario. Non era leggenda ma, pura realtà il fatto che uno di questi V.D.N. è riuscito a bere, sdraiato per terra, con un imbuto in bocca e con una seconda persona a versare il vino dentro l’imbuto, cinque litri di vino in un unico getto.
Incredibile ma, vero.
Di “bevitori cronici” a Curinga ce ne sono stati tanti (V.D.N., G.V., P.D., M.A., C.G.B., ecc.), ed alcuni di questi, quando alticci, raccontavano storielle e si mettevano a cantare deliziando i passanti.
In questi casi, inscenavano per strada un “Teatrino di Piazza” che nulla aveva da invidiare a quello messo in atto, nello stesso periodo, dal più famoso Totò (Antonio De Curtis, attore Napoletano) nelle sue varie sceneggiate Napoletane.
Spesso si accompagnavano con una chitarra e cantavano e danzavano tarantelle improvvisate allietando i passanti ma, senza dare fastidio a nessuno.
Del resto, si trattava anche di grandi lavoratori che, purtroppo, manifestavano questa debolezza.
Lavori da donne d’altri tempi
Se ti guardo negli occhi, leggo subito una tua possibile domanda: come mai mi hai raccontato tutto e di tutto dei personaggi maschili più o meno importanti del paese e non mi hai raccontato di donne che operavano costruttivamente in questo posto?
Hai perfettamente ragione e, se ben ricordi, ti avevo addirittura parlato di un “Monumento” da erigere alle Donne perché, da ciò che adesso ti vado a raccontare e da ciò che ti ho già raccontato, converrai che lo meriterebbero a pieni voti.
Ti ho già parlato dei lavori domestici cui le donne dedicavano le loro giornate che iniziavano alle prime luci dell’alba e finivano quando il resto della famiglia già dormiva.
Tessitrici, ricamatrici, “Maistre” di taglio e cucito, erano le artigiane più in vista e quelle che avevano la fortuna di poter lavorare sotto casa o, dentro casa nel vero senso della parola.
Era una categoria di privilegiati proprio per questo motivo perché, molti altri, per lavorare era necessario recarsi sul posto di lavoro e questo, non sempre si trovava vicino a casa.
Chi non aveva lavoro, era costretto ad emigrare, ed emigrare era un rischio perché affidavano al destino il proprio futuro e il proprio avvenire.
Tra le varie categorie di donne, c’erano quelle che, purtroppo, non conoscevano le arti del Tessere o del Ricamare così, per necessità di vita, erano costrette a svolgere lavori che li costringevano a stare intere giornate fuori di casa.
Non si trattava certamente di lavori concettuali, ma di lavori manuali e soltanto di lavoro manuale perché, altro tipo di lavoro era per i tempi impensabile.
Si contavano sulle dita di una mano le donne che svolgevano attività intellettuale a Curinga;

La maggior parte era quindi obbligata a svolgere i lavori più umili come quello di lavandaia, o di raccoglitrice di olive, o andare a servizio presso altra famiglia facendo la domestica o la serva di casa, (cucinare e svolgere le altre faccende come sistemare i letti, spazzare e lavare panni sporchi).
Molte famiglie, non disponevano nemmeno di un appezzamento di terra da lavorare e in questi casi, anche le donne erano obbligate a prestare la loro opera manuale per terzi per racimolare un qualcosa che potesse sollevare le sorti della famiglia.
C’erano così dei gruppi consistenti di Raccoglitrici d’Olive che, con grandi sacrifici, dedicavano la loro giornata lavorativa alla raccolta delle olive nelle campagne dei grossi proprietari terrieri del luogo.
Ed era una vera e propria fila indiana il mattino, quando il sole non era ancora sorto, per recarsi in località “Campolongo” dove, opportunamente sorvegliate da un “Guardiano” preposto dal proprietario, raccoglievano le olive del padrone.
Molte delle raccoglitrici di olive, tutte donne, uscivano da casa all`alba e percorrevano chilometri a piedi prima di raggiungere gli oliveti, dove lavoravano dalle dieci alle tredici ore al giorno, secondo la stagione.
Tornate a casa, le attendevano i lavori domestici.
Senza assistenza sanitaria, spesso senza nessuno cui lasciare i bambini, le raccoglitrici di olive si portavano i più piccoli nei campi, mentre i più grandicelli, tolti presto dalla scuola, partecipavano già alla raccolta.
Lavoravano scalze, sempre chinate a terra, ed erano pagate a cottimo: in olio nella maggior parte dei casi, o in denaro.
Il lavoro comprendeva, per alcune, anche il trasporto dei sacchi, che pesavano tra i quindici e i venti chili l`uno.
Alle prime luci dell’alba, un rapido segno di croce e, tutti con le mani per terra a raccogliere olive per raggiungere quel quantitativo minimo sufficiente che gli garantiva alla fine della giornata una “paga giornaliera”.
In pratica ricevevano in cambio litri di olio (di scarsa qualità) in quantità proporzionale alla quantità di olive raccolte. (Un litro per ogni misura di olive raccolte)
Raccontarlo in questo modo, sembra una normale attività lavorativa ma, se si pensa che il posto di lavoro lo si raggiungeva a piedi e alla luce di una lanterna che illuminava il viottolo impervio da percorrere, allora l’attività non appare più normale ma ricca di sacrifici e sofferenze fisiche.
Tieni presente che la giornata non finiva col lavoro sul terreno di raccolta, ma continuava ripercorrendo, a ritroso, quel viottolo percorso, al buio, il mattino presto, anzi, prestissimo.
Se questa figura femminile in qualche modo muove a compassione, ce n’era un’altra, anch’essa numerosa e anch’essa da apprezzare, che si dedicava al lavaggio dei panni sporchi, da eseguire a mano, e non in casa perché l’acqua corrente non arrivava dentro le case dell’epoca.
Tre Canali, Rizza, Samboni, Rupa, Acquaru e altre località dove c’era un corso d’acqua, erano le mete per assolvere a questo dovere familiare.
Soprattutto quando c’era da fare il “Grande Bucato” che oltre alle piccole cose come strofinacci fazzoletti calzini ecc., comprendeva il lavaggio delle lenzuola dei letti singoli e matrimoniali.
Questo tipo di bucato seguiva un iter particolare perché bisognava prima sistemare i panni in un grande cesto e poi cospargerli con una miscela di cenere disciolta in acqua bollente “lissia” che fungeva da disinfettante.
A conclusione dovevano essere risciacquati con abbondante acqua pulita.
Quest’ultima operazione si svolgeva di solito in una delle località che ti ho prima elencato.
I rovi lì presenti, si prestavano bene per stendere i panni per farli asciugare al sole.
Ancora più caratteristico era il periodo della “Cura de la Tila” cioè un’operazione cui erano sottoposti i prodotti della tessitura, “li trusci de Tila”, prima di essere confezionati in lenzuola, camicie, tovaglie da cucina, asciugamani o altro.
Le lunghe strisce di tela distese al sole, erano visibili da lontano.
Quest’operazione era ancor più faticosa perché bisognava lavare e asciugare, ripetendo l’operazione più volte, perché lo scopo, non era solo quello di lavare ma anche quello di ammorbidire il Tessuto.
Si batteva con forza la tela bagnata su una pietra a forma piatta così da renderla sempre più morbida.
Si stendeva poi al sole e, quando si asciugava, si ripeteva l’operazione.
Tutto ciò, diverse volte nell’arco della stessa giornata.
La giornata terminava col rientro a casa delle donne con in testa una “Cesta di Panni” puliti, asciutti e profumati, pronti per essere utilizzati nel loro modo d’uso.
A questi lavori, poco nobili ma dignitosi, c’erano poi quelli eseguiti nei vigneti aiutando i propri mariti o i propri padri di famiglia.
La raccolta di tralci di vite “de li Sermienti” era un lavoro prettamente femminile così come passare lo zolfo e togliere le foglie in eccesso, volgarmente detto: (‘nzurfarara e spalagrara) rispettivamente.
Quando invece c’era da passare di rame le piante, le donne si limitavano a versare l’acqua nella quale era stata disciolta la rame, nella pompa usata per irrorare.
Era invece una festa il momento della vendemmia, anche se la donna, proprietaria assieme al marito della vigna, doveva badare a raccogliere e sistemare l’uva da regalare e quella da conservare.
A spremitura avvenuta, doveva bollire il mosto per preparare il vin cotto, tanto usato nelle varie ricette locali.
Tutti questi lavori svolti da donne ed esclusivamente da loro, sono a mio parere sufficienti per riproporre ancora una volta un “Monumento alle Donne” di altri tempi.