Ricamatrici e giochi d'altri tempi

Ricamatrici su Via Nazionale

Più che Fabbri, Artisti del Ferro Battuto

 Stiamo percorrendo adesso Via Nazionale e ci stiamo dirigendo verso Via Ospizio, dove si concluderà il nostro percorso.
Vedi, sotto questa curva, denominata la “Curva de Cumba”, dalla quale si può ammirare un incantevole panorama, esisteva la Forgia di Mastro Domenico Lo Russo, poco ricordata ma operosa ed efficiente.
Era ubicata al piano terra della sua abitazione, poco visibile dalla strada principale ma, dotata di uno spiazzo antistante dove venivano ferrati asini e cavalli.
E’ inutile dirti che oltre a queste operazioni, anche in questa forgia si realizzavano serrature, tripodi, alari per il camino e tante altre cose per le quali erano un via vai per ottenere questi servizi.
Ancora più sotto, in una casa tutta isolata, ho un vago ricordo di un “Conciatore di Pelli” però, mi sfugge il nome della persona che svolgeva questa attività.
In realtà non sono sicuro nemmeno se le pelli le “conciasse”, di certo le commerciava.
Siamo prossimi al rione Ospizio ma poco prima, lungo questa lunga fila di case poste sulla nostra sinistra, esperti e giovani ricamatrici, si dedicavano al loro lavoro con lo sguardo rivolto verso la strada antistante da dove giovani innamorati, passavano nella speranza di vedere o, essere visti dalle ragazze. 
Ricamatrici erano le sorelle D’Amico poi emigrate in America assieme ai loro fratelli Giovanni e Domenico, ragazze serie e ben educate, ma anche altre ragazze del vicinato, delle quali non mi è facile ricordare il nome, che si riunivano in questa casa per ricamare o imparare, sotto l’occhio vigile di una “Maistra” l’arte del ricamo.
Un personaggio che abitava lungo questa fila di case, era compare Rosario Mazzotta, un omone orgoglioso di se stesso e dedito al suo gregge di capre che pascolava nei dintorni del paese senza infastidire nessuno.
Di carattere gioioso e rispettoso verso tutti, sempre fischiettante e con in mente sempre e soltanto la canzone di guerra de “Il Piave” che cantava a squarciagola quando, a passo di Bersagliere, si recava in Piazza dopo la sua solita giornata di lavoro.
Era uno di quelli che consegnava il latte a domicilio.
Con un contenitore di alluminio e con una misura a supporto, bussava alla porta dei suoi clienti e consegnava il quantitativo di latte richiesto. Un personaggio socievole, di indole buona che qualcuno bonariamente tentava di sminuire nel suo orgoglio di combattente di guerra. Quando gli si rimproverava di avere partecipato alla capitolazione di Caporetto, lui sosteneva vivamente di non avere combattuto quella battaglia, ma di avere combattuto e impedito l’avanzata delle forze austro-ungariche sul Piave, e di averle costrette con questo ad un patto di armistizio e quindi alla fine della guerra.
Poco oltre, la discesa di via Ospizio dove esisteva ed esiste ancora una delle più importanti ed operose “forge” di Curinga.
Ci troviamo alla sommità di Via Ospizio e questa forgia, che appartiene ancora alla famiglia Grasso (Domenico, Giovanni, Vito e Carlo) annoverava forse il numero maggiore di clienti tra i proprietari di Asini ma anche di Buoi da ferrare perché, all’epoca, questi animali, erano sfruttati sia come mezzo di trasporto sia come mezzo di lavoro per arare i campi, soprattutto quelli impervi dove i primi mezzi meccanici non potevano arrivare.
Ho nominato tutti i proprietari perché, chi prima e chi dopo, tutti hanno lavorato in questa forgia prima di intraprendere altre attività lavorative.
In realtà questa Forgia era quella del Sig. Frijia Antonino ubicata poco più in basso di via Ospizio, rilevata da Mastro Elia Grasso con lo scopo di indirizzare a tale lavoro il figlio Domenico già avvezzo a questo mestiere per averlo imparato e svolto nella forgia dello Zio Vito Frijia ubicata nel Passo.
Ciò è stato possibile perché il Sig. Frijia era prossimo all’età di pensionamento e non disdegnava di poter cedere la sua attività a chi aveva ancora voglia di continuarla. In questa Bottega si faceva qualsiasi tipo di lavoro.  
Oltre che ferrare Asini, Cavalli e Buoi, si tosavano gli stessi Asini, si realizzavano Falci, Roncole, si affilavano i Coltelli nel periodo della mattanza dei maiali e le Roncole nel periodo della mietitura, ma si realizzavano soprattutto accette di varie dimensioni utili non solo ai numerosi Potatori presenti in Curinga ma anche ai normali cittadini che le usavano per preparare la legna per il proprio focolare.
Del resto, il focolare fungeva non solo da riscaldamento durante l’inverno ma anche da fornello da cucina per poter preparare un pasto caldo durante la giornata.
Le opere di maggiore rilievo portate avanti in questa forgia, erano comunque le inferriate ed i cancelli in ferro battuto che ornavano ed ancora oggi ornano ed arricchiscono di arte molte case.
Disegni artistici venivano riprodotti in ferro con grande maestria dai mastri proprietari di questa bottega, e venivano realizzati così Balconi, Cancelli e inferriate di Recinzioni per buona parte delle abitazioni.  Grande perizia era necessaria quando bisognava creare, da un pezzo di ferro grezzo, un’accetta utile poi ai Potatori.
Apparentemente semplice ma, abbastanza complicato perché bisognava adeguare la dimensione “dell’occhio” (la Testa) a forma trapezoidale (così veniva volgarmente chiamata la parte dove veniva poi fissato il manico in legno), alle dimensioni stesse dell’accetta che si voleva produrre.
Bisognava poi darle una forma cuneiforme, ben sfilata e di profilo approssimativamente triangolare, e farla finire in una parte dura e tagliente così da ottenere il massimo risultato nel taglio col minimo sforzo fisico dell’operatore. Un perfetto allineamento tra parte di legno (manico) e parte di ferro (accetta vera e propria) facevano del mastro un grande esperto del mestiere.
L’operazione più difficile era comunque quella finale nella quale bisognava “temprare” l’accetta, per renderla dura e contemporaneamente indistruttibile.
La tempra era ed è un trattamento dei materiali metallici che si esegue attraverso raffreddamento più o meno rapido su un ferro incandescente, in modo da renderlo più duro e resistente all’usura. Dopo aver reso incandescente sul fuoco la parte tagliente dell’accetta, bisognava immergerla nell’acqua o nell’olio, più volte e in tempi adeguati, in modo da ottenere la durezza voluta.
Era l’esperienza del Mastro a fungere sia da cronometro che da termometro per i tempi e per la temperatura da ottenere e da ciò veniva fuori il prodotto finito.
L’operazione era difficile perché, qualora non fossero stati rispettati canoni di raffreddamento adeguati, l’accetta rischiava di diventare dura e fragile, presentando immediate lesioni superficiali che mandavano a monte l’intero lavoro eseguito in precedenza.
Un buon risultato finale rappresentava un vanto per il mastro e gli conferiva la notorietà che avrebbe richiamato altri clienti ed altro lavoro.
 Fhjunda, Pizzicu e Mazzicu
 Dopo averti descritto per sommi capi qualche operazione difficile che eseguiva un Mastro che operava da Fabbro, ti voglio parlare ora della Potatura degli alberi e dei vantaggi che questa apportava alle piante ma anche alle famiglie che trovavano nelle frasche e nei legni una risorsa importante per alimentare il proprio focolare e riscaldare la casa d’inverno, ma soprattutto per preparare un piatto caldo di giorno.
Non ci crederai ma, a trarre vantaggi da questa operazione, c’erano anche i ragazzi che sfruttavano queste occasioni per procurarsi rudimentali strumenti di gioco dei quali ti parlerò a breve.
La Potatura era un rito che negli uliveti si effettuava sistematicamente ogni due anni sulla stessa proprietà, che era utile per ringiovanire le piante e portarle a maggiore e migliore produzione.
L’attrezzatura in questi casi era costituita essenzialmente da accette di varie dimensioni, e a produrle nonché a renderle efficienti, come ti ho raccontato, erano proprio i Fabbri del luogo.
Alla potatura ti dicevo, erano interessati anche i ragazzi e le ragazze perché dalle frasche traevano alcuni rudimentali strumenti per i loro giochi.
Mentre aiutavano a sistemare i mazzi di frasche nei vari magazzini o, dove possibile, all’aperto davanti casa, si mettevano alla ricerca di due bastoni non molto grossi e dritti, che opportunamente lavorati venivano poi utilizzati nel gioco del “Mazzicu e Pizzicu”.
In pratica il nome di questo gioco varia da regione a regione ed anche da zona a zona nella stessa regione.
 Il suo vero nome è “Il Gioco della Lippa” le cui origini risalgono al XV secolo ed è diffuso in varie nazioni europee tra le quali, periodicamente, si svolgono dei tornei agonistici.
I due bastoni, dopo averli ripuliti con un coltello da tutti i rametti superflui e dai bitorzoli presenti sul ramo, si dimensionavano alla lunghezza desiderata ed erano così pronti per essere utilizzati nel gioco di cui costituivano mazzicu e pizzicu.
Visto che si tratta di un gioco d’altri tempi, ti voglio ora spiegare come in realtà funzionava dalle nostre parti, e ti anticipo qualcosa dicendoti che si poteva praticare in uno spiazzo più o meno grande e da più persone contemporaneamente, ma si preferiva giocarlo in due o a coppie mettendo a confronto due squadre costituite da due giocatori ciascuna.
Per giocarvi era necessario disporre di uno o due bastoni alti poco meno di un metro ed un altro pezzetto di legno lungo circa trenta centimetri, più sottile rispetto al primo, ed appuntito da entrambi i lati; questo, costituiva volgarmente “lu pizzicu” (Lippa) mentre quello più grande era denominato, anch’esso volgarmente, lu “Mazzicu” (Mazza o Bastone). 
Come detto, si poteva giocare in tanti oppure in due o in coppie.
Per quanto io mi ricordo, il gioco a due prevedeva un cerchio disegnato per terra, il cui raggio dipendeva dallo spazio di cui si disponeva, dall’età dei due giocatori ma, quasi sempre, misurava un metro o poco più di diametro (da regolamento, il raggio deve essere pari alla lunghezza della Mazza).
Uno dei giocatori si poneva all’interno di questo cerchio, e doveva difendere quest’area, con il Bastone “Mazzicu”, dalla caduta in esso della Lippa “Pizzicu” lanciato verso questa meta dall’altro giocatore.
Il gioco era più difficile per il difendente o, più facile per il lanciante, quanto più grande era l’area del cerchio da difendere.
Il giocatore preposto alla difesa doveva cercare di colpire al meglio “lu pizzicu” e spedirlo più lontano possibile così come si usa fare con la pallina nel gioco più moderno del baseball.
Si scambiavano le posizioni solo quando “lu pizzicu”, non colpito dal difendente, cadeva all’interno dell’area circolare disegnata.
Se malauguratamente stazionava sulla linea di confine, allora il difensore aveva possibilità di riallontanare “lu pizzicu”, facendolo volteggiare e colpendolo al volo fino ad allontanarlo più lontano possibile. L’idea vincente del lanciatore era spesso il modo di lanciare “lu Pizzicu” verso la meta, nascosto dietro la schiena fino all’ultimo momento prima del lancio verso il difensore e, lanciato di traverso, di dritto, rotante, saltellante ecc., in modo cioè da rendere sempre più difficile la sua intercettazione.
Il gioco a coppie prevedeva la presenza di due squadre costituite ciascuna di due contendenti.
Due erano i difendenti delle due aree, una per ciascun giocatore, disegnate per terra, sempre di forma circolare, ma poste a distanza di cinque o sei metri o anche più l’una dall’altra e di dimensioni molto più ridotte rispetto a quella del gioco singolo.
Era in pratica una piccola buca di raggio dieci – quindici centimetri che costituiva la sede della Mazza “Mazzicu” quando si era in attesa del lancio dell’avversario.
L’altra coppia era preposta a lanciare “lu pizzicu” nel tentativo di avvicinarsi più possibile alla piccola area disegnata che poteva essere conquistata solo quando la distanza tra area e Pizzicu si poteva misurare con una spanna, era cioè distante dieci o quindici centimetri dal centro. Ogni qualvolta questo accadeva, bisognava scambiarsi le posizioni di gioco scambiando i difendenti con i lanciatori.
La posizione più importante era quella a difesa delle aree disegnate per terra perché gli altri due giocatori dovevano raccogliere “lu pizzicu” da distanze spesso esagerate rispetto alle basi ed era un andirivieni che alla fine sfiancava i contendenti lancianti.
I difendenti, durante il recupero della Lippa “Pizzicu”, andavano avanti indietro tra l’una e l’altra buca, contando numericamente i loro passaggi, cercando di raggiungere il numero massimo stabilito ad inizio gara (ad es. 500), e cercando di essere pronti alla difesa qualora un avversario si avvicinasse col Pizzico in mano per infilarlo, prima di lui, nella piccola buca.
Era questo motivo di scambio di posizioni di gioco.
La partita terminava quando i difendenti riuscivano a raggiungere, nel conteggio, il numero prefissato all’inizio della gara.
Ogni rione aveva il suo campo o i suoi campi di gioco così, divennero famosi “lu chianu de menzalora, la Villa, lu Passu, Pruscinu, la Ndolerata, Rivenzinu, lu Chjianu de Vivacqua, Natraccola, la Petra chjiana, la Serra de Cianciu, lu Spizzu, la Gabina, Gurniegghi, Santu Lia, San Franciscu, lu Chjianu de l’Aria, e tutti i rioni del paese, perché, di macchine ne circolavano molto ma molto poche ed il rischio e la pericolosità per i bambini inesistenti.
Capitava anche che nel praticare questo gioco si provocasse qualche danno a cose circostanti e quando questo accadeva, erano duri richiami da parte dei genitori e alcune volte botte per tutti senza, però che i danni causati compromettessero la stima e l’amicizia tra le famiglie coinvolte.
Se questo gioco era praticato prevalentemente dalle donne, i ragazzi frugavano fra i mazzi di frasche per trovare una “piccola forca” che, munita di due elastici e un pezzetto di cuoio finale, costituiva la “fionda”, cioè l’arma con cui andare a caccia di uccelletti e di lucertole nelle campagne vicine al paese.
Era un rito formare delle vere e proprie squadre la cui competizione consisteva nell’uccidere il maggior numero di lucertole possibili, risultando vittoriosa la squadra che riusciva a fare meglio.
Erano vere e proprie spedizioni con portatore e cercatore di pietre, dove un ragazzo era preposto ad infilzare ad un filo di ferro le lucertole uccise, mentre un altro o altri, provvedeva a scegliere le munizioni (piccole pietre raccolte lungo la strada).
A quest’ultima operazione, erano preposti i ragazzi più piccoli mentre il capo spedizione era sempre il miglior colpitore, quello cioè che possedeva la mira migliore.
Vere e proprie stragi portate a termine nelle località come “Riola, Terrata, Varrancu, Santu Lia, Zzia fhama, Gurniegghi, Trimalu e Salici” dove c’era sempre qualcuno che coltivava l’orto di famiglia.
In questi frangenti, molti ragazzi che sentivano l’esigenza di dover mangiare qualcosa, “scaràvanu” invadevano cioè gli orti privati in assenza del padrone, e s’ingozzavano di fichi, ciliegie, arance, mandarini, lattughe, finocchi e di tutto quello che la stagione offriva, anche se i frutti fossero ancora acerbi.
Spesso, l’arrivo improvviso del padrone costava caro al gruppo perché bastava che se ne riconoscesse uno, per essere poi additato ai familiari e, nella peggiore delle ipotesi essere denunciati al Brigadiere della locale stazione dei Carabinieri.
Erano sicuramente botte immediate da parte dei genitori ai propri figli e questo accadeva indipendentemente se fossero stati sorpresi a “rubare” o meno, in quanto, l’essere rientrati tardi a casa per l’ora di pranzo o essersi allontanato da casa per un’intera giornata, era un buon motivo per essere sonoramente bastonati.
Schiaffi educativi che non hanno mai fatto male a nessuno anzi, hanno aiutato i ragazzi a crescere meglio e, nell’ambito della legalità.
 Carrocci e Trappole
 Ci troviamo ancora nel rione Ospizio, diventato famoso anche per la sua discesa che veniva utilizzata come rampa di lancio per i Carrocci (Carriciegghu), molto in voga nel periodo di cui stiamo parlando.
Tra i vari giochi d’altri tempi, oltre a quelli di cui ti ho già parlato, ne esistevano altri, più o meno pericolosi rispetto a quelli già descritti, che voglio in qualche modo raccontarti per farti capire che, la fantasia, l’arguzia e la temerarietà, non mancavano nei ragazzi del tempo.
Il “Carroccio” (Carriciegghu), era uno strumento di giochi pericoloso. 
Era costituito da una rudimentale tavola lunga un metro o poco più, dotata di due assi, uno anteriore e uno posteriore, con quell’anteriore fissato al centro dell’asse longitudinale della tavola portante, in modo da dargli la possibilità di ruotare a mo’ di sterzo e, tre o quattro ruote di legno, fissati una per ogni estremità degli assi.
Nel caso delle tre ruote, per quell’unica davanti, veniva realizzato un particolare sistema in modo da dargli la possibilità di potersi orientare verso destra o verso sinistra, in base al movimento dello sterzo eseguito dal suo conducente guidatore. 
La discesa del rione Ospizio, era l’ideale per usare questo strumento di gioco perché non costringeva i ragazzi a spingere un loro compagno per fare “volare” il carroccio così come bisognava fare in pianura per farlo avanzare.
Molte strade erano ancora in terra battuta e quelle asfaltate o cementate, erano prese d’assalto dai ragazzi dotati di carroccio per divertirsi con questo strumento di gioco.
I Carrocci più grandi trasportavano fino a tre o quattro ragazzi contemporaneamente e, più grandi erano e più pericolosi diventavano in quanto, per una legge della fisica, a parità di pendenza, aumentando la massa aumenta l’energia, e questo era veramente un pericolo perché i freni erano costituiti solo dalle suole delle scarpe che facevano presa sul terreno.
Si tendeva a frenare il meno possibile soprattutto perché non si volevano consumare le scarpe che, per i tempi, erano molto preziose, ma anche perché molto spesso il conducente le scarpe neanche ce le aveva ed era quindi costretto a frenare a piedi nudi e ciò, puoi immaginare, era molto doloroso.
Via Nazionale veniva percorsa per intero, dalla zona più alta del paese fino a Gornelli o Soccorso, passando per via Roma o, per Piazza Armando Diaz ad alta velocità con questi “Bolidi”.
Col tempo divennero sempre più veloci perché le ruote in legno, vennero prima gommate, fissando una striscia di camera d’aria o di copertone sulla loro circonferenza esterna, e poi vennero addirittura sostituite da veri e propri cuscinetti a sfera, di auto o di camion dismessi, e ceduti gratuitamente da parte dei meccanici del posto.
Ricoprire le ruote con uno strato di gomma significava ridurre sensibilmente l'usura del legno ma riduceva anche il rumore prodotto quando rotolavano sulla strada.
Carrocci in miniatura erano costruiti dai padri per i propri figli più piccoli, ma questi venivano usati solo dentro casa, come giocattoli.  In questi casi, le ruote erano costituite spesso dalle rotelle del “Fuso” usato dalle nonne per filare la lana (li fhorticchjia).
Non c’erano tante automobili che circolavano per il paese o, perlomeno non ce n'erano tante da mettere a repentaglio l’incolumità dei ragazzi dediti a questo gioco; semmai, erano le cadute, a volte rovinose, a procurare danni fisici che costituivano poi altra motivazione per prendere “Botte” una volta rientrati, sporchi e graffiati, a casa.