Dal Palazzo Rosso alla Casa Colonica
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Il Palazzo Rosso e la Scuola di Avviamento Professionale


Le Ruote del Carro e la Casa Colonica
Dopo avere attraversato il Rione Rivenzino e avere superato la Casa di Riposo Maggiore Perugini, raggiungiamo quello dell’Addolorata, così chiamato per la presenza di una chiesetta dedicata all’omonima Madonna, costruita, pare, intorno al 1850.
Nel rione Addolorata operava “Mastru Nicola Currado”, falegname specializzato nella realizzazione delle ruote dei Carri o dei “Birocci” trainati dai Buoi o dai Cavalli rispettivamente.
Operazione non facile perché le varie parti che componevano la ruota erano abbastanza complesse, sia nel farle sia nell’assemblarle. La parte più delicata era il Mozzo, ma anche i raggi ed il cerchio esterno non erano facili da realizzare.
La scelta del tipo di legno, che doveva essere robusto e resistente, era una delle tante cose da farsi, ed anche la lavorazione delle varie parti si presentava abbastanza complicata.
Tutto questo diventava abbastanza semplice nelle mani esperte di “Mastru Nicola” perché disponeva non solo dell’attrezzatura adeguata per poterlo fare, ma anche di quell’esperienza e manualità professionale che, in questi casi, erano necessarie.
Le parti di legno non erano sufficienti da sole a costituire l’intera ruota perché c’era anche il cerchione di ferro da fissare esternamente.
Questo veniva di solito realizzato nella vicina Forgia di Mastro Vito e Battista Mazza, cognati di Mastro Nicola che, una volta ricevuta la commessa, si adoperavano per fare il “cerchione” ed una volta fatto, provvedevano tutti assieme ad unire la parte di legno con la parte ferrosa esterna, rendendo così la ruota prodotta indistruttibile.
C’erano delle fasi operative che si svolgevano al tornio, altre che prevedevano l’uso di asce seghe e raspe, altre ancora l’uso di scalpelli mentre la fase ultima di fissaggio del cerchione avveniva in cooperazione col fabbro perché bisognava eseguirla a caldo seguita da un rapido raffreddamento della parte ferrosa per garantire una perfetta adesione tra legno e ferro del cerchione esterno.
Il principio della dilatazione a caldo e del restringimento a freddo del ferro, era ciò che rendevano un tutt’uno le parti legno - ferro.
Lunghi chiodi fissati a caldo, completavano il lavoro e, ad operazioni ultimate, veniva fuori una vera e propria opera d’arte.
Un altro Falegname di buona notorietà, era Mastro Giovanni Veneziano che, assieme al fratello Nicola, ha contribuito non poco all’edilizia del paese fornendo infissi e porte per abitazioni di nuova costruzione o, di semplice ristrutturazione.
La figura di “Carpentiere”, persone dedite alla costruzione d’impalcature per nuove costruzioni edilizie, era bene interpretata da entrambi, anche se, solo uno dei due si è dedicato a tale mestiere fino all’età del suo pensionamento.
Adesso percorriamo il rione del Piano delle Aie e poi scenderemo per via Nazionale fino a raggiungere via Ospizio che, come ricorderai, abbiamo deciso di non percorrere quando gli eravamo vicini.
Ti racconterò altre storie di altri personaggi e ti descriverò luoghi molto legati alla mia infanzia.
Di questo rione, una cosa che non potrò mai dimenticare, era il terreno argilloso che era caratteristico di questo luogo.
La strada principale denominata oggi Via Vincenzina Frijia, era in terra battuta, lastricata di solo terriccio, senza cunette per far defluire l’acqua piovana, e con pochissime case che popolavano questa zona alta del paese.
Ricordo la casa con annessa masseria del Sig. Giovanni Zangara (Massaru Giuanni), quella di Anania Venanzio “Vinanzu” che oltre al fienile aveva la stalla dove custodiva i suoi Buoi e le sue Mucche.
Ricordo quella di Giovambattista Currado, (“Stivalina”) sul lato opposto, autista di “Don Bernardo Bevilacqua”; a seguire la casa di Mastro Nicola Lo Russo, quella dei La Rizza, bassa e contenuta ma, con lunghi pergolati di uva fragola e orto nel quale mastro Nicola coltivava ortaggi di ogni tipo.
La casa del sig. De Vito Francesco, l’Officina dei Fratelli Sgromo, un Palmento dietro il campo sportivo, due case nascoste nel verde dei Sorrenti e dei Panzarella rispettivamente e, la casa colonica; tutto qua, non c’erano altre costruzioni.
Scendendo verso casa dei Cesareo, s’incontrava sulla destra un piccolo agglomerate di case che comprendevano la casa della famiglia Migliarese, Gugliotta, De Dato, della famiglia Zarola, e a seguire quella dei Terranova, il cui capostipite era proprio Sebastiano Terranova, il sarto a domicilio di cui ti ho già parlato, quello per intenderci, che nella sua vita ha fatto anche l’ombrellaio. Ce n’erano poche altre.
La casa dei Cesario, nella realtà un villino immerso nel verde che godeva di una posizione panoramica invidiabile, era abitata, in quel tempo, da Don Cesare Cesario, Ispettore onorario per l’antichità e belle arti, autore di: Curinga – Tip. La Rapida, 1966 e di Itinerari Calabresi, Gruppo Gesualdi editore – Roma.
Questa zona comincia a popolarsi agli inizi degli anni cinquanta, con la costruzione dell’edificio scolastico e dell’INA Casa, costruita dall’Istituto Autonomo Case Popolari.
Questo Ente, dava in assegnazione un appartamento dietro pagamento di un adeguato canone mensile, a persone dipendenti da enti pubblici o privati, che ne avessero fatta richiesta e che ne avessero diritto per “costituite graduatorie comunali”.
I primi Assegnatari sono stati: famiglia Abatino, famiglia Dedato, famiglia Facciolo, Famiglia Sestito, Famiglia Gaudino, Famiglia Piro e, per rinuncia di quest’ultima, la famiglia Lugarà.
In questo luogo l’argilla imperava in modo incontrastato e soprattutto nei periodi invernali, quando la pioggia cadeva copiosa, la zona diventava “paludosa”, con tanti piccoli stagni d’acqua diffusi qua e là che era difficile attraversare.
Le rane popolavano questi stagni e nei periodi primaverili e nella calura estiva, gracidavano all’impazzata ed era un concerto che, agli abitanti del luogo, gli è valso il soprannome dei “cra - cra”.
La strada asfaltata, denominata discesa di Don Cesare, corredata oggi da muri in cemento armato a sostegno, ai tempi di cui ti sto parlando era una mulattiera difficile da percorrere.
Era semplicemente un percorso ad ostacoli, con grosse pietre sparse qua e là che dovevi conoscere, per poggiarvi i piedi sopra evitando di imbatterti in pozzanghere dalle quali era difficile liberarti.
Il percorso alternativo per raggiungere il campo sportivo era Via Nazionale, da percorrere interamente lungo il suo percorso naturale, fino al Piano delle Aie, dove finivano le abitazioni.
Il Campo Sportivo, è sempre esistito ma, in pratica, ha subito trasformazioni e ampliamenti negli anni, soprattutto a cavallo degli anni trenta quaranta e i successivi anni cinquanta.
Lo ricordo senza recinzione, con l’erba e, tanti rovi che però non impedivano ai ragazzi e giovani del tempo di rincorrere un rudimentale pallone di gomma e successivamente di cuoio. Costituiva un orgoglio per il paese di Curinga perché, i paesi vicini, non potevano vantare una cosa del genere.
Non era lo Stadio Militare di Catanzaro e nemmeno il San Vito di Cosenza, ma era un terreno di gioco che i curinghesi hanno saputo sfruttare nel tempo per confrontarsi sportivamente con squadre di paesi vicini, fino a partecipare poi ai campionati “propaganda” organizzati dalla Lega Calcio nel lontano 1945.
Fu negli anni cinquanta, durante l’Amministrazione Comunale guidata da Carlo Piro che lo stadio fu ampliato, recintato e chiuso con muri in blocchi, (più volte divelti dal forte vento di levante) per poter essere omologato e far disputare partite riconosciute dalla Lega Calcio.
Tanta gloria e tanto divertimento in quest’unico luogo dove era possibile dimenticare per un po’ i tanti problemi della vita che in questi periodi, attanagliavano le famiglie del luogo e, non solo.
La guerra era finita da poco ed i giovani potevano godere finalmente della loro libertà che utilizzavano anche per giocare al pallone, anche se, chi lo faceva, era additato come un “perditempo” da parte di gran parte della popolazione curinghese.
Non sempre era possibile disporre dell’intero rettangolo di gioco perché, le Mucche dei vari Massari del luogo (Massaru Giuanni, Vinanzu e Cumpara Fhranciscu) che abitavano nei dintorni, pascolavano indisturbate su questo terreno brucando proprio l’erba che spontaneamente cresceva sul terreno di gioco.
Non era facile convincerle a spostarsi così come non era facile convincere i proprietari a spostarle perché, ad un vicino pascolo, non si rinunciava facilmente.
Capitava anche che, qualche giocatore, rotolasse sulle enormi “cacche” lasciate dalle Mucche al pascolo ma, nessun problema perché, la fontana del Piano delle Aie assieme all’acqua stagnante nelle cunette che si trovavano anche ai bordi del terreno di gioco, forniva acqua sufficiente per lavarsi e ripulirsi alla meglio dalle indesiderate porcherie.
L’ultima casa del paese, era la Casa Colonica, frequentatissima nel periodo Fascista ed usata da questi come Campo-Scuola per la formazione dei giovani Balilla.
Costringevano i ragazzi a svolgere attività atletiche utili “al fisico e alla mente” così come recitava uno slogan del tempo.
La casa colonica negli anni successivi al periodo fascista è stata abitata dalla famiglia Sgromo. (Figli: Mimì, Rino, Bernardo, Antonio)
Anche in questo posto esisteva uno spiazzo, abbastanza pianeggiante, dove era possibile giocare al pallone, ma lo spiazzo dove i ragazzini erano dirottati dai più grandi per farli giocare, era quello dove oggi è stato costruito il Bar Birillo, che era all’epoca terreno comunale, e che costituiva un buon posto per giocare al pallone.
In realtà in Curinga c’era uno stuolo consistente di giovani e di ragazzi che volevano giocare al pallone sul “terreno principale”, ma che per farlo realmente, non era facile.
Lo facevano i più grandi perché per loro, non valeva nemmeno la regola dall’avere occupato il campo per primi perché, con prepotenza, i più piccoli erano sempre costretti a spostarsi nello spiazzo vicino e a lasciare libero per loro il campo principale.
Nell’incrocio tra Via Nazionale e l’attuale Via Madre Vincenzina Frijia, c’era l’officina dei fratelli Sgromo (Domenico e Rino).
Un’enorme Baracca, coperta con lamiere zincate con all’esterno costantemente parcheggiata una “Trebbia” ed una “Imballatrice” usate solo nei mesi estivi per la trebbiatura nelle campagne della marina e nei terreni collinari circostanti.
All’interno di questa officina ricordo la presenza di un Trattore, quella di una moto Guzzi, di biciclette e “macchine” che sostavano per essere riparate dagli esperti meccanici.
Alle pareti veniva appeso di tutto: tubolari per biciclette, camere d’aria, catene da biciclette, e tutta l’attrezzatura di chiavi inglesi utili alla riparazione dei vari mezzi meccanici.