Un Monumento alle Donne?
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Via Nazionale: Un Monumento alle donne?
Attività dimenticate o, scomparse del tutto.

Il primo artigiano che s’incontrava lungo la strada era il calzolaio Pizzonia che lavorava nel vicoletto, dietro Chiesa dell’Immacolata.
Il locale era alquanto buio e angusto, attrezzato con gli strumenti essenziali per lo svolgimento della propria attività.
Con questo lavoro, portato avanti con tanta professionalità e onestà, Mastru Fhranciscu Pizzonia, riuscì a vivere e a far vivere una vita dignitosa anche alla sua numerosa famiglia.
Lungo la strada principale, “Mastru Cicciu” (Bianca Francesco), svolgeva invece l’attività di Stagnaro.
Un saldatore di Rame, che scaldava su un fuoco, ravvivato da una ventola a manovella e che usava per saldare la lamiera e dar forma a oliere, lanterne e contenitori di vario genere e dimensione.
Il padre era proprio “lu mbastaru” colui che costruiva basti per gli asini e per i muli e svolgeva la sua attività nel locale accanto, sempre sotto la sua abitazione.
Arrivati a questa biforcazione, potremmo decidere se percorrere via Garibaldi e procedere poi per piazza Marconi, oppure salire per via Ospizio dove incontreremmo molte altre attività tra cui due mulini ad acqua che io però, non ricordo funzionanti.
Per ora procediamo lungo la strada e poi, superati San Rocco e il Piano delle Aie, scenderemo un’altra volta per il centro storico del paese e percorreremo anche via Ospizio, rione più antico di Curinga e che ha dato addirittura le origini a questo paese.
Rina Genovese, un’abile sarta in grado di cucire abiti sia per uomo sia per donna, lavorava ed in casa produceva ottimi capi di abbigliamento apprezzati da tutti i suoi committenti.
Di lei, rimane in me un vago ricordo, labile e confuso e, sinceramente, non saprei parlarti più approfonditamente di lei.
Dove oggi c’è il Monumento dedicato agli emigrati, opera del Maestro Farina, esisteva ai miei tempi una delle più efficienti ed attrezzate Falegnamerie di Curinga, ma prima di parlarti di questa, vorrei soffermarmi sui monumenti in generale.
Da sempre l’uomo ha pensato ad erigere monumenti: per i caduti in guerra, per l’emigrante, busti e targhe per uomini illustri, ma non ha mai pensato di erigerne uno dedicato alla “Donna “, angelo della casa, mamma di famiglia e massaia infaticabile.
Nei miei ricordi è rimasta un’immagine di donna che, dalla nascita fino alla fine dei suoi giorni, era dedita a realizzare se stessa come ragazza prima, come moglie e come mamma poi donando tutta se stessa in ogni occasione, anche in quelle in cui si richiedevano sforzi fisici non indifferenti.
Provo adesso a raccontarti come si svolgeva la sua vita, ed il riferimento non è ad una donna in particolare, ma alle donne in generale che, nel nostro e in tutti gli altri piccoli centri rurali della Calabria, era una “norma comportamentale” e non una eccezione.

La moglie assolveva alle faccende domestiche, ma spesso aiutava anche in campagna, nei lavori che non richiedevano la forza dell’uomo.
Le donne costituivano il “propulsore principale” per far funzionare bene le famiglie, e molte erano le incombenze e le faccende giornaliere alle quali si sottoponevano, sia in casa sia fuori.
Oltre al lavoro da casalinga e al da fare di una madre di famiglia, fuori di casa c’era da attingere, ogni giorno o più volte al giorno, l’acqua dalle fontane pubbliche, poiché il 90% delle case non erano munite d’impianto idrico.
C’era poi da fare il bucato, i panni venivano lavati nelle acque correnti del fiume, (a Curinga si usava recarsi a Rìzza, (Sàmboni), a Rupa o, semplicemente a Tre Canali); fare la spesa, l’acquisto delle tante cose che non era possibile produrre in proprio, e inoltre, nei periodi di grossi lavori nei campi, quali la mietitura, la vendemmia, la raccolta delle olive o dei foraggi, bisognava cucinare in casa e portare in campagna, per mezzogiorno, un piatto caldo e buon vino in quantità a chi lì lavorava fin dalle prime ore del mattino.
Quando gli appezzamenti di terra erano piccoli o l’uliveto era costituito da un numero di piante limitato, allora la donna era coinvolta in prima persona a legare le spighe mietute o a raccogliere le olive da portare al frantoio per produrre l’olio per le esigenze familiari.
Devi sapere che la donna, al mattino, era solita alzarsi prima del marito perché doveva accendere il fuoco e preparare una bevanda calda per la prima colazione, che spesso era costituita dalla pasta o verdura avanzata dalla sera precedente opportunamente riscaldata.
La moglie doveva anche preparare ’lu servièttu o stavajùccu’, cioè una colazione che serviva come merenda nell’ora in cui non era possibile fare un vero e proprio pranzo perché la terra o il posto di lavoro, si trovava molto distante da casa.
Abbondante pane e Frittate, sarde salate, salami, formaggi, olive schiacciate o sotto sale, baccalà fritto, etc., costituivano il companatico.
Il tutto veniva avvolto in un tovagliolo abbastanza grande:” lu servièttu o stavajùccu”.
Ma oltre al marito ed ai figli, in molte famiglie, c’erano altre bocche da sfamare: il maiale, che avrebbe poi fornito le provviste di carne per l’inverno, la capra, che quotidianamente dava il latte per i più piccoli, i conigli e le galline, altrettanto importanti per la carne e le uova.
Il lavoro del mattino non finiva qui perché doveva preparare la brodaglia (vrodàta) con crusca e residui di cibo per il maiale; il mais (ndianu) per le galline; foglie di acacia ed erbe varie per i conigli.
Intanto si svegliavano i bambini, ai quali la mamma preparava “la suppa”, la zuppa di latte o di orzo (ùorjiu), con abbondante pane di casa spezzettato dentro.
I ragazzini in età scolare, andavano a scuola e le mamme potevano stare tranquille almeno per una mezza giornata; per il resto bisognava fare tutto portandosi dietro i più piccoli o affidandoli alle nonne.
La pulizia della casa non richiedeva molto tempo, perché spesso le case come hai potuto ben vedere guardandone la loro struttura, erano costituite di un unico locale, una sola stanza dove si viveva tutti insieme, e dove dormiva tutto il nucleo familiare.
Un magazzino diventava la stalla per l’asino e per tutti gli altri animali domestici.
C’erano poi le faccende più impegnative quale la preparazione del pane, da cuocere in un forno a legna (a fhraschi), del quale quasi tutte le case erano dotate.
Nei tempi di cui ti sto parlando ed a noi non molto lontani, il pane si faceva in casa, ma poiché si trattava di un lavoro abbastanza impegnativo e di adeguata competenza, ti voglio spiegare le varie fasi della lavorazione.
La sera che precedeva quest’operazione, le donne si procuravano il lievito consistente in un piccolo quantitativo di pasta di pane, ma poiché ogni giorno questa pasta doveva essere “rinnovata”, per evitare che si asciugasse e facesse la crosta, le massaie se lo scambiavano tra di loro rendendosi un favore reciproco.
Ricordo: Vai ggha cummara Mariuzza (?) e dìnci mu ti ‘mpresta lu lievitu ca pua ‘nci lu tornamu fhriscu. Era questo il comando che le mamme imponevano ai propri figli quando c’era da prepararsi per fare il pane.

Il pane nero veniva chiamato “pana de brunièttu”.
Il tutto veniva impastato, pigiando a pugni chiusi la pasta, mettendo abbondante “olio di gomito” e manipolato nella madia (majiggha), contenitore di legno di forma rettangolare, fino a rendere la pasta morbida ed omogenea.
Dopo una prima fase di lievitazione, il pane si “schjianàva”, cioè con poca pasta (la quantità variava secondo la forma che si voleva fare), prelevata dalla massa con le mani e con l’aiuto di un coltello o di una palettina in ferro, si formavano i pani nella forma voluta: “cugghùri, pitti e panietti”, ciambelle, pitte e pani rotondi o a filone.
La cugghùra era un pane di media grandezza, di forma rotonda e con un buco al centro, ed era la più pregiata e la più apprezzata da tutti. Molto saporita era la pìtta, una specie di “schiacciata” che si cuoceva all’imboccatura del forno, perché richiedeva una cottura breve e veloce nello stesso tempo.
Molto gustosa era quella farcita con peperoni arrostiti al momento, ma quella più gradita era la “pìtta cu li salimuòri “che si faceva d’inverno, nell’epoca in cui si uccidevano i maiali allevati in proprio con la cui carne si preparavano le provviste di salami per la famiglia.
E’ inutile ormai spiegarti i vari termini dialettali perché, per averne già parlato, sai già che cosa sono “li salimuori”.
Le varie forme di pani venivano disposte in ordine, su tavole su cui si spargeva un poco di farina per evitare che la pasta si attaccasse e subito si coprivano con bianche tovaglie, in inverno anche con coperte di lana per la lievitazione, per la quale occorrevano circa un paio d’ore.
Nel frattempo si preparava il forno, che doveva trovarsi a temperatura giusta al momento giusto.
Preparare il forno per cuocere il pane, ci voleva maestria e saper fare e le donne anziane in questo, facevano da maestre alle donne più giovani.
Quando il forno era pronto, cioè aveva raggiunto il grado di calore necessario alla cottura del pane, con particolari arnesi di legno dal lungo manico: “lu grastìegghu e lu cagghìpu”, lungo palo a cui venivano legati degli stracci che venivano bagnati, si tiravano le braci verso l’imboccatura del forno, si puliva la base del forno, quindi con la pala di legno s’infornava il pane aiutati in questo da una stretta parente o da una fidata vicina di casa.
I pani più grandi, che richiedevano una cottura più lunga, venivano infornati per primi e man mano verso l’imboccatura quelli più piccoli.
Una delle Pitte infornate spettava all’aiutante qualora questa fosse una persona estranea alla famiglia; da noi ricordo che la prima pitta era della mia nonna.
Con un coperchio (Timpàgnu) in lamiera di ferro dotato di due manici verticali anch’essi in ferro, veniva chiusa l’imboccatura del forno e si aspettava che il pane si cuocesse. La massaia, di tanto in tanto, sorvegliava la cottura e rigirava, se necessario i pani più piccoli che impiegavano meno tempo a cuocersi. A cottura ultimata il pane veniva tolto dal forno e sistemato, ancora fragrante, in apposite ceste: “la cìsta de lu pàna”, che serviva solo a questo scopo.
Ti dico che molti altri lavori, ordinari, straordinari e stagionali, venivano fatti dalle donne di casa e che in buona parte si fanno ancora oggi.
Ti ricordo tra questi la salsa e la conserva dei pomodori per l’inverno, unitamente a diverse altre provviste per potere conservare e gustare anche in inverno i prodotti dell’orto che erano alla base dell’alimentazione durante l’estate.
Molti ortaggi venivano conservati in vari modi: melenzane e peperoni, dopo averli ben lavati ed affettati, venivano conservati in salamoia in appositi recipienti di terracotta chiamati salatùri, con l’aggiunta di aromi quali l’aglio, finocchio selvatico, quello che cresceva spontaneamente nei campi, peperoncino e origano.
Fuori dalle finestre, a grappoli, venivano appesi anche fichi d’india, e soprattutto peperoncini a cornetto piccanti, infilzati a collana.
Con le melenzane e i peperoni, tagliati in fettine sottilissime, si usava fare la “giardiniera” facendoli maturare qualche giorno nel sale, poi nell’aceto e quindi sistemandoli in barattoli di vetro coperti di olio di oliva. Avrai capito che le nostre donne erano specialiste nella preparazione di queste provviste che allietavano la tavola e costituivano il companatico per chi andava a lavorare nei campi.
Poiché in tutte le case la pasta al sugo di pomodoro è sempre stato il piatto più importante fin dai tempi antichi, la salsa di pomodoro in bottiglie o la conserva di pomodoro, più densa in barattoli, veniva preparata ogni fine estate in tutte le case, qualunque fosse il suo ceto sociale.
Le madri di famiglia, con l’aiuto di parenti o vicine, lavoravano ogni estate quintali di pomodori che riducevano in salsa che conservavano in bottiglie di vetro che venivano poi sterilizzate in acqua bollente per garantirne la lunga conservazione.
Un altro sistema di conservazione dei pomodori era quello di farli essiccare al sole.
I pomodori venivano tagliati in due, privati dei semi, salati ed esposti al sole per diversi giorni a essiccare (così come si fa con i funghi), poi, con l’aggiunta di aromi, aglio, origano e peperoncino, venivano messi nei vasi e coperti con olio di oliva.
Spesso, le massaie si cimentavano a farcire questo tipo di pomodori essiccati con l’ulteriore aggiunta di un pezzetto di acciuga (sarda salata), ed era una delizia.
In alcune zone della Calabria, queste usanze persistono ancora perché costituiscono degli ottimi cibi da offrire agli amici durante una cenetta; in altri tempi costituivano invece il companatico giornaliero.
Ora ti parlo della preparazione della salsa di peperoni che era la più laboriosa (la cunzèrva de’ pipi), indispensabile ingrediente per la preparazione dei salami fatti in casa con la carne del maiale allevato in proprio.
Questa salsa di peperoni si faceva con i peperoni rossi, rotondi e molto carnosi che, privati dei semi e salati, venivano cotti a lungo in un pentolone sul fuoco a legna e quando si riducevano in una poltiglia, bisognava scolarli bene e passarli al setaccio, come i pomodori, e poi ancora sul fuoco per fare evaporare l’eventuale residuo acquoso per renderla sufficientemente densa.
Veniva poi conservata in recipiente di vetro o di terracotta dopo averla ricoperta da un sottile filo di olio.
Come vedi, molto, dunque, avevano da fare in casa le nostre donne, specialmente in estate, per conservare provviste per l’inverno, compresi i fichi secchi che, una volta, costituivano la frutta preferita e, in alcuni casi, il companatico dei poveri.
Con i fichi secchi si preparavano le crocette “li cruciètti”, cioè fichi secchi, farciti con noci o con mandorle, chiusi a forma di croce ed infornati.
Erano le “chewing-gum” dei bambini del tempo ed erano una vera delizia. Per evitare di annoiarti, ho volontariamente tralasciato molte altre faccende domestiche (lavorare al Telaio per preparare il corredo alle figlie, ricamare, rammendare gli abiti della campagna che spesso si strappavano, preparare la rame per le vigne, raccogliere i tralci della potatura e togliere le foglie superflue dalle viti, preparare il sapone del quale ti parlerò a breve etc.) a cui la donna d’altri tempi era dedita ma, sarai sicuramente d’accordo che bastano quelle elencate per potere affermare che un Monumento andrebbe eretto in tutti i posti dove, almeno una di queste fantastiche donne, ha operato.
Ritorniamo ora alla falegnameria che occupava il posto occupato oggi dal Monumento agli Emigrati.

Per la lavorazione del legno erano forse i migliori “Mastri” di questo mestiere e per questo, ricercati e contesi dai committenti.
Il lungo rettifilo stradale che segue, lo ricordo da ragazzino ancora ciottoloso e ricordo anche quando è stato deposto il primo asfalto. Ricordo “Gina” un vecchio Camion che trasportava il bitume e ne trasportava tanto che la sua velocità in salita, superava di poco quella pedonale. Tra ragazzi si faceva a botte pur di aggrapparsi alla sponda posteriore col solo piacere di essere trasportati, per un breve tratto, da “Gina”.
A nulla servivano gli improperi recitati dall’autista perché, sistematicamente qualcuno era sempre aggrappato, soprattutto i più spregiudicati che, già da Gornelli, riuscivano a farlo.
Due porte, due negozi diversi e un unico proprietario: Mastro Antonio Orlando.
Il Primo era un negozio di ferramenta, ben fornito e ben frequentato da molti artigiani per rifornirsi di materie prime utili al proprio lavoro. Il secondo, comunicante col primo attraverso una porta interna, era un” genere alimentare”; entrambi venivano gestiti spesso da una sola persona.
Quando Mastro Antonio si assentava per recarsi nelle città vicine per rifornire di merce i suoi negozi, era la moglie “Donaruzza” che, dopo avere assolto ai lavori domestici, operava attivamente nella gestione dei negozi, e lo faceva in silenzio, garbatamente e con tanto saper fare.
Quando erano presenti entrambi, la moglie gestiva il negozio di generi alimentari mentre don Antonio quello di ferramenta.
Anche se c’era molta concorrenza tra negozianti, ognuno lavorava onestamente nel suo, senza screzi o odi ingiustificati, anzi, c’erano molti negozianti intimamente amici tra loro.
Risalendo verso “Pruscinu” ricordo la prima ubicazione della bottega di falegnameria di Mastro Elia Perugino che nel tempo è stata più volte spostata, trovando poi sistemazione sulla via che porta alla chiesa di San Giuseppe, accanto all’arco dei Ferraro e vicino la casa dove abitava Mastro Elia.
Ricordo semplicemente tavole poggiate al muro da entrambi i lati della bottega, un banco all’interno sulla sinistra rispetto all’ingresso e sotto una piccola finestra, con pialle e piallette (Chjanuozzi) di diverso uso e dimensione poggiate sopra questo banco, e tanta segatura per terra che veniva contesa dai vicini e dai Fabbri perché utile ad accendere il fuoco nelle Forge o nei camini presenti in tutte le case.
Seguiva il negozio di Don Bruno Davoli, anche lui nella gestione di un doppio negozio internamente comunicante, di cui uno di generi alimentari gestito da lui direttamente, e un secondo, di ferramenta, gestito dal nipote Marcello Marrella.
Pensando a questo negozio mi ritornano ancora in mente i lunghi fili di pasta Bucatini, scuri di colore e lunghi il doppio di quelli attuali, contenuti in scatole di cartone, venduti a peso, filo per filo e incartati solo dalla parte che si usava prenderli in mano per portarli via dopo averli acquistati.
Anche la pasta corta era dello stesso colore ed era contenuta in sacchi dai quali si attingeva con una “sassola” per deporla sulla bilancia, pesarla e venderla al cliente.
Oggi, le leggi sull’igiene non consentirebbero tutto questo.
Ancora un Fabbro, Mastro Pietro Buragina, con la bottega posta sotto la sua abitazione che operava con le solite mansioni di ferratura degli asini e nella sistemazione di attrezzi da lavoro (Picconi, Zappe, Vanghe, Roncole, Accette ecc.).
Un via vai per affilare i coltelli nel periodo della mattanza dei maiali, un tintinnio di martello per affilare le falci nel periodo della mietitura, un pestare costante per sagomare il ferro grezzo e trasformarlo in Tripodi, Alari, Serrature e quant’altro, utile all’edilizia e al fabbisogno della comunità curinghese.
Ai piedi di salita Calvario, ma su strada principale, sulla sinistra era ubicato l’Ufficio di Collocamento gestito dal Sig. Michienzi.
Si accedeva salendo un paio di gradini, e ci si recava in questo posto per cercare l’occupazione della giornata, o magari quella a vita, con la garanzia di essere trattati nel lavoro assunto, secondo le norme previste dalla legge.
I contributi ai fini pensionistici erano la cosa più importante da garantirsi per potere aspirare alla pensione una volta raggiunta l’età prevista dalla legge del tempo.
Siamo arrivati adesso a Piazza Guglielmo Marconi da tutti i curinghesi denominata “Pruscinu”. Puoi notare Palazzo Perugini, che è questa grande costruzione che rimane sulla nostra destra.

Sembra ieri ma, sono passati tanti anni.
Un’altra cosa che ricordo è la bottega da Calzolaio di Mastro Pasqualino Ielapi, posta in uno dei tanti locali del Palazzo e alla quale si accedeva risalendo quella piccola scalinata che ancora oggi resiste al tempo.
Da quell’altra scala sulla destra, si accedeva invece all’Esattoria, dove i proprietari terrieri di Curinga si recavano per pagare le cosiddette Terraggere e le varie tasse imposta dal comune.
Era inizialmente ubicata sotto la Farmacia che si trovava qui sulla nostra sinistra vicino casa di Don Vincenzino Russo, personaggio noto per avere ricoperto per lungo tempo l’incarico di Guardia Municipale.
Proprio sotto l’Esattoria, era ubicato il primo centralino telefonico pubblico, un posto dal quale era possibile prenotare una chiamata per un parente emigrato, oppure attendere una chiamata da questi parenti lontani.
Dopo essere stati avvisati per una chiamata in arrivo dal gestore di questo centralino, si attendeva con pazienza la tanto sospirata telefonata che spesso, non portava buone notizie.
Mastro Ezio Costarelli, come detto, è stato uno di questi gestori.
Se diamo uno sguardo sotto questo muro alla nostra sinistra, ti posso indicare dove si trovavano altre due attività.
Una di calzolaio, sulla nostra sinistra scendendo per Via Pietra Piana, gestita da Antonio Catanzaro e l’altra, sulla discesa che porta all’Arco di Tavano, che era la macelleria di Pasquale Mazzotta.
Quest’ultima, ha occupato il posto del fruttivendolo Buragina, anche se in seguito, si è trasferita nel “Passo”, in Piazza Immacolata.
L’attività che ravvivava questa piazza era il Mulino dei fratelli Sorrenti (Agostino e Giuseppe).
Un mulino azionato da energia elettrica e che operava per macinare quel grano che i curinghesi producevano nella piana di Sant’Eufemia e nei terreni di loro proprietà. Un assordante rumore di martelletti che frantumavano il grano per trasformarlo in ottima farina era ciò che si udiva passando da questo luogo per recarsi all’Esattoria o per andare a Scuola nei locali del Palazzo Rosso o a Notar Cola o per farsi visitare dal Medico Condotto Dottor Fortunato Perugini.
Nessuno ha mai protestato per il rumore prodotto dalla presenza del mulino, perché la gente sapeva essere comprensiva e rispettosa per il lavoro degli altri e soprattutto tollerante.
Sul lato opposto del muro (“u muru e pruscinu”), il negozio di generi alimentari di Malacari Domenico che fungeva anche da cartoleria perché vendeva anche quaderni, penne e matite, agli scolari che passavano da questo luogo per recarsi a scuola.
La specialità riconosciuta e ricordata ancora oggi da molti, era comunque il Baccalà che sapeva dissalare e ammorbidire “spugnare” come nessun altro sapeva fare in Curinga.
Vasche in lamiera e ricambio costante di acqua attinta alla vicina fontana, facevano diventare le salate “chiappe di baccalà” in eccellenti filetti pronti per essere cucinati. Ricordo anche la rivendita del fragrante “Bovolone” una pasta sfoglia farcita da ottimo cioccolato che unito ai fichi secchi (“scadi”) riempivano in gran parte le cartelle “di legno” degli scolari, soddisfaceva e sostituiva degnamente il “panino” di mezza mattina in classe.
Succedeva anche che alcuni ragazzi compravano da lui il panino da consumare in classe ma, la maggior parte degli scolari, le due fette di pane se le portava da casa.
Venivano farciti con ottimo salame curinghese e buona provola o formaggio, prodotti anch’essi nell’ambito locale ma anche da profumatissime frittate che le mamme del tempo preparavano con tanto amore per i propri figli.
In tempi antecedenti a quelli di cui ti sto parlando, mi hanno raccontato della esistenza di un contenitore metallico (?) appeso in alto su un muro del Palazzo (?) che, si diceva, avesse contenuto la testa mozzata di un Brigante o, malvivente del luogo (Peppazzu (?)).
Pura fantasia, leggenda o verità nascosta?
Certo è che i ragazzi del tempo, provavano paura al solo pensiero di questo macabro contenitore e prima di attraversare quella via, per paura, ci pensavano su due volte.
Una ultima annotazione: In una stanza del palazzo Perugini, situata immediatamente dopo l’abitazione del Dottore Fortunato Perugini è stata ospitata una classe della prima o seconda elementare.
Il Sapone fatto in casa.
Elencando e descrivendo le varie attività femminili, ho volontariamente evitato di parlare del “sapone fatto in casa” primo, perché non si trattava di un lavoro giornaliero, secondo perché questa attività richiedeva tanta dedizione e tanta esperienza necessaria per ottenere un buon prodotto finale, e questa esperienza ed abilità, non tutte le donne le possedevano.
Quella di preparare il Sapone, utile poi nel grande e piccolo Bucato di casa nonché nelle pulizie personali per coloro che non potevano comprarsi le Saponette profumate, era un’attività quasi annuale perché, svolta almeno una volta all’anno.
Le sostanze riciclate, (olio fritto e residui di olio delle giare “le murghe”), che costituivano le risorse principali, unite ad un adeguato quantitativo di Potassa ed acqua, venivano fatte bollire in un Calderone e, intervenendo sulla bollitura e sul dosaggio degli ingredienti, si riusciva alla fine, ad ottenere un ottimo sapone.
Fare il sapone richiedeva una certa esperienza, perché non era facile lavorare con grandi quantitativi di materiale e quindi non era nemmeno facile dosare bene la soda (potassina), ingrediente essenziale per farlo solidificare, e l'acqua occorrente per evitare che trasbordasse durante la bollitura.
Solo l’esperienza maturata negli anni faceva riuscire un buon sapone.
Il giorno stabilito si preparava un Calderone (la Coddara) tenuto sul fuoco per poter eseguire questa operazione.
Si adagiava sul grande treppiedi “Tripuodi” e sotto si accendeva un bel fuoco mettendo a riscaldare le "murghe" che a dir la verità, non avevano un bell'aspetto.

A queste murghe si univa anche olio fritto filtrato e se capitava, anche grasso di maiale inutilizzato.
Il grande fuoco scioglieva tutto e rimescolando con un vecchio manico di scopa in continuazione, s'incominciava ad aggiungere pian, piano la soda che aveva il potere di far gonfiare il tutto.
Era necessario quindi, tenere a portata di mano tanta acqua che, buttata sopra a secchiate, regolava il livello e calmava il bollore della potassa.
Il segreto era mescolare sempre e controllare il fuoco per regolare la cottura.
Bisognava riconoscere se la miscela era troppo "potassosa" (troppa soda) e quindi c'era bisogno di altra acqua, o era "liscia" cioè acquosa e abbisognava di altra soda.
Mescolando, mescolando, avveniva la magia! Il brutto colore iniziale, andava scomparendo diventando un bel caffelatte fino a un bianco panna, quando andava bene.
Si capiva che era pronto quando, mettendo il bastone al centro del calderone, questo restava bello dritto e non scivolava verso il bordo.
Significava che la consistenza era quella giusta e la grana presumeva una buona saponificatura.
Il sapone quindi, cuocendo diventava cremoso e senza grumi e a questo punto si poteva togliere dal fuoco.
Si lasciava riposare tutta la notte e già il giorno dopo si poteva constatare il risultato.
Battendo con la mano al centro si vedeva subito se era solidificato o meno.
A volte, addirittura, se il risultato era perfetto, la massa si staccava da sola dal contenitore e galleggiava nella "lissìa" cioè nella lisciva.
La Lisciva era un'acqua nera dal penetrante odore di soda, molto utile per sbiancare qualche oggetto annerito prima di buttarla via.
Se non era ancora solido, si lasciava riposare per altro tempo, prima di tagliarlo, ma se capitava che non solidificasse ("quagliava"), voleva significare che qualcosa era andato storto e quindi andava rifatto (stornatu).
Il sapone, naturalmente prendeva la forma del contenitore dove veniva lasciato e quindi poi, andava tagliato in piccoli pezzi maneggevoli.
Per tagliarlo venivano in aiuto gli uomini di casa che, con un lungo coltello “U Licca sapuni”, e con la loro forza, facevano diventare tutto più facile.
Una volta tagliato a pezzi non restava altro che farlo asciugare finché diventava secco e leggero.
Si mettevano i pezzi su una tavola appesa con fil di ferro al soffitto, dove poteva asciugare liberamente almeno per un mesetto prima di poter essere usato.
Un breve inciso: nel portare a termine una di queste operazioni, Donna Concetta Mazza ci ha rimesso un occhio perché ha avuto la sfortuna di essere colpita da uno schizzo di questa miscela proprio in faccia provocandogli così questa perdita.
Oggi, queste cose sembrano cose d'altri tempi e quei grossi pentoloni, "le murghe" ecc, sono stati da tutti dimenticati così come dimenticato è il "sapone fatto casa".