Le Scuole Elementari e un Calzolaio

Un Mestiere particolare e le scuole elementari.
 Poco più avanti, subito dopo la curva, ricordo un personaggio dal mestiere particolare - "un Sarto che lavorava a domicilio”.   
Ti spiego meglio.
Ti ho già detto che in Curinga c’erano molte tessitrici e come tali, producevano (Trusci de Tila) rotoli di stoffe sia di lino sia di seta o, di altra fibra naturale. 
Il Sarto Sebastiano Terranova, esperto nella confezione di biancheria intima (Camicie di lino, che costituivano l'indumento più intimo per le donne, mutande per uomo e per donne, canottiere per uomo, ecc.), si recava a casa dei suoi clienti, prendeva, con le dovute cautele e l’indispensabile riservatezza “le misure” ai suoi committenti, tagliava sul posto, dal rotolo che gli veniva fornito la quantità di stoffa utile per realizzare la commissione,  per poi recarsi nella sua bottega per realizzare ciò che gli era stato commissionato.
Col passare del tempo questo mestiere è scomparso perché il progresso ha proposto la biancheria intima pre - confezionata, di migliore qualità e che meglio si adattava alle esigenze personali.
Verso la fine degli anni ’50, Furgoni carichi di questo tipo di biancheria, giravano per le nostre strade ancora impolverate e per ogni vicolo transitabile vendendo ogni sorta d’indumento intimo, assolvendo così a ogni esigenza personale e familiare.
Al Terranova è venuto così a mancare il lavoro principale, ma non si dà per vinto perché s’inventa un secondo mestiere, quello dell’Ombrellaio, che porterà avanti per lungo tempo e col quale finisce la sua attività lavorativa prima di smettere definitivamente di lavorare.
Ancora un’altra Sartoria, quella del Sig. Pileggi che, con uno stuolo di apprendisti pronti ad aiutare nelle imbastiture “cu ntralandi e supramani” confezionava abiti per la festa e pantaloni da lavoro in quantità industriali, portando avanti e completando la commessa, nel più breve tempo possibile.
La confezione artigianale di abiti, richiedeva e richiede una conoscenza approfondita delle tecniche sia di taglio sia di cucito, che varia secondo i tessuti usati e a secondo della moda in auge.
Ciascun “Mastro” metteva in atto i propri "trucchi del mestiere", soprattutto nelle rifiniture, che venivano curate nei loro minimi particolari perché costituivano, alla fine, la differenza sostanziale tra la confezione artigianale di un Mastro rispetto a quella di un altro, ed erano questi che spesso lo rendeva preferibile.
Le Sartorie erano le botteghe artigiane con il maggior numero di discepoli apprendisti e le più frequentate da personaggi importanti, che in esse trascorrevano parte del loro tempo libero.
Le belle giornate estive e autunnali soprattutto, venivano dagli apprendisti e dallo stesso Mastro sfruttate per portare avanti il loro lavoro manuale davanti alla porta, portando le loro sedie fuori, e lavorando all’aperto non solo per respirare aria più salubre rispetto a quella che si poteva respirare dentro la bottega, ma anche per risparmiare quanto più possibile l’energia elettrica necessaria per illuminare un ambiente che spesso, oltre alla porta d’ingresso, non possedeva altre aperture da cui poter fare entrare la luce del giorno.
Ricordi quella foto che ti facevo vedere e che ritraeva gli scolari di una classe elementare di Curinga?
Bene, una di queste classi svolgeva la sua attività didattica proprio lungo questa via e proprio in uno di questi locali che oggi è stato trasformato in garage.
Quella foto mi commuove ancora e rimane per me un’immagine indelebile nel tempo.
Il ricordo riaffiora ogni volta che la guardo e la custodisco ancora gelosamente perché ritrae un gruppo di scolari che circondano affettuosamente la loro Maestra.
I ragazzi, erano vestiti col grembiule nero e un colletto bianco legato con fiocco anch’esso bianco; un numero romano cucito sul grembiule, indicava la classe di appartenenza. 
Le ragazze, per distinguersi dai ragazzi, indossavano anche loro un grembiule con colletto bianco, ma legato con un nastro rosa.
 Alcuni ragazzi della foto che custodisco, appaiono con i capelli rasati a zero, e l’esigenza, non era la moda del momento ma piuttosto quella di difendersi dalla pediculosi (pidocchi) che, spesso, imperversava e i pidocchi abbondavano tra i ragazzi che frequentavano le scuole elementari degli anni ‘50.
Le aule erano di solito fatiscenti, costituite da stanze illuminate da luce artificiale, spesso senza finestre o aperture aggiuntive che potessero fare entrare la luce del sole.
L’aria che si respirava era sempre pesante perché, nonostante il giornaliero controllo da parte del Maestro sull’igiene personale dei suoi scolari, molti si limitavano alle pulizie essenziali dato che non c’erano docce dentro le case e l’acqua usata per lavarsi era sempre poca perché bisognava andare ad attingerla fuori, alle fontane dislocate nei vari rioni del paese.
Le scuole, non erano come quelle di oggi, dotate di lunghi corridoi, aule ampie e luminose con lavagne ben fissate alle pareti così come sono quelle che possiamo vedere oggi nelle scuole moderne delle quali, ogni piccolo centro urbano è ormai dotato.
Erano invece semplici stanze, dislocate nei vari rioni del paese che ospitavano classi formate da trenta o quaranta scolari, con lavagne poggiate su un tre - piedi e banchi a due posti di legno con dei buchi dove deporre il calamaio personale. 
La penna a sfera era comparsa da poco (1945) e, chi la possedeva, era da considerarsi un privilegiato perché tutti gli altri, scrivevano usando una penna a inchiostro e, guai a macchiare il foglio del quaderno perché erano botte o “bacchettate” sulle nude mani degli scolari distratti e disordinati. Non sporcare il foglio del quaderno faceva parte della disciplina scolastica.
Le scuole a Curinga come detto, erano dislocate per i vari rioni del paese, anche se, le classi erano composte non per vicinanza alla scuola stessa ma associando ragazzi di ceto sociale diverso.
Capitava così che in una classe c’era il figlio del professionista così com’era presente il figlio del contadino e dell’artigiano.  
Quelle del mio periodo, le ricordo quasi tutte: ne ricordo una Sotto Via, dove insegnava la Maestra Balbo, due a Notar Cola dove insegnavano la Maestra Menniti e il Maestro Vincenzo Sgromo, due a San Rocco, al Palazzo rosso dove insegnavano il Maestro Carlo Piro e il Maestro Anania ed infine una sotto casa del Maestro Terranova che, oltre ad essere il maestro di questa classe, era anche il proprietario del locale.
Ne esistevano sicuramente altre ma, queste sono quelle di mia conoscenza e che affiorano alla mia mente, anche perché l’ubicazione poteva cambiare di anno in anno perché si cercava di migliorare almeno, le condizioni di luce naturale nelle aule.
Era una scuola basata essenzialmente sul rapporto umano che ogni maestro o maestra cercava di instaurare con gli scolari della propria classe.
Non c’era Televisione e i giornali circolavano con grande difficoltà. Le conoscenze di noi ragazzi si limitavano a tutto ciò che ascoltavamo, a ciò che era visibile e palpabile e che vivevamo giornalmente nella nostra realtà paesana.
Ricordo il giornale “il Tempo” che il mio maestro comprava tutti i giorni e, per noi scolari sembrava impossibile riuscire a leggere tutte quelle enormi pagine scritte perché consapevoli delle difficoltà che incontravamo noi nel leggere e comprendere gli scritti dei nostri libri scolastici che erano di pochi righi o, al massimo, di un’intera pagina scritta.
I Maestri, almeno una volta l’anno, portavano i loro scolari in gita scolastica a Sant’Elia Vecchio, per fare scoprire la natura, vedere da vicino i ramarri, le lucertole, le formiche e gli uccellini che abbondavano lungo il percorso, mentre le ragazze raccoglievano i fiori da campo per regalarli poi alla loro Maestra o, al loro Maestro che, sistematicamente, ritornati in classe, deponevano ai piedi del Crocefisso appeso dietro la cattedra.
Le classi, in queste occasioni, erano accoppiate ad altre classi ed erano i maestri che, in base alla loro programmazione decidevano quando si potevano fare queste gite di escursione a scopo didattico.
Naturalmente ciò avveniva in primavera, quando il tempo mite e sereno lo consentiva.
Ricordo anche la festa degli alberi e il corteo del due Novembre riservato rigorosamente alle quinte classi, che nel massimo silenzio e compostezza partiva dalla Chiesa Matrice per raggiungere il Cimitero dove il Parroco celebrava una solenne Messa a suffragio dei defunti.
 Le gite erano organizzate nel modo più severo possibile; scolari disposti in fila per due, tenendosi per mano, senza parlare fino a quando non si raggiungeva la periferia del paese. 
Solo a questo punto si scioglievano le righe e si poteva più liberamente guardare e curiosare dove meglio si credeva, cercando di scoprire cose che potessero coinvolgere la curiosità dei compagni e del maestro che era sempre pronto a spiegare per arricchire le conoscenze dei suoi scolari.
 Il rientro a scuola, non era da meno dal punto di vista della disciplina perché, i maestri, tenevano a far vedere ai cittadini che s’incontravano lungo il percorso, che i propri scolari, fossero ben educati e diligenti, tanto quanto il Maestro pretendeva.
 Devo comunque dirti che l’istruzione a Curinga e nel meridione in generale, soprattutto all’inizio del 1900, non ha avuto una normale evoluzione ed ha incontrato ogni sorta di difficolta.
L’analfabetismo era diffuso in tutta Italia e imperava in tutto il territorio meridionale perché il sistema scolastico non riusciva a incidere in modo efficace, soprattutto nei piccoli centri.
La storia racconta che da questo punto di vista, si comincia a intravedere qualche cambiamento con la riforma di Giovanni Gentile e di Gaetano Salvemini (1904), quando viene prolungato l'obbligo scolastico fino al dodicesimo anno di età, prevedendo l'istituzione di un "corso popolare" formato dalle classi quinta e sesta.
La riforma impone ai Comuni di istituire scuole almeno fino alla quarta classe, nonché di assistere gli alunni più poveri perché lo stato elargisce i fondi a tutti i Comuni che hanno modesti bilanci.
 Nel 1911, la scuola elementare, fino allora gestita dai comuni, diventa un servizio statale, ponendo a carico dello stato il pagamento degli stipendi dei maestri elementari, così da poter disciplinare l'obbligo in modo più vigoroso anche in quelle realtà locali molto disagiate in cui i bilanci comunali non avevano consentito, in precedenza, una corretta organizzazione.
La sua applicazione fu però problematica anche per il sopraggiungere della prima guerra mondiale.
 La storia della formazione scolastica a Curinga, a partire dagli inizi del 1900 è particolare e difficile per le difficoltà dei piccoli centri abitati penalizzati dalle scarse risorse economiche in cui versavano, ma anche per le cattive condizioni in cui versavano le vie di comunicazione e soprattutto per la mancanza di formatori.
In massima parte, la formazione scolastica di base arrivava dagli uomini di chiesa (Parroci, Preti e Monaci), preposti a curare le anime loro affidate e che, per sopperire alla loro “fame”, vagavano di paese in paese, offrendo i loro servizi.
Curinga, vive proprio così le sue prime esperienze scolastiche.
Due Preti, Michienzi (?) e Lo Scerbo (?), di origini curinghesi (?) e ben noti alla comunità, con certosina pazienza, dedicano gran parte del loro tempo ad istruire i giovani vogliosi di migliorarsi culturalmente.
Alcuni genitori affidavano i propri figli a questi due personaggi in modo da verificare se fossero idonei o meno agli studi e nella maggior parte dei casi, gli esiti erano positivi o, in ogni caso, sufficienti per essere indirizzati ad imparare a leggere e scrivere, anche se in modo rudimentale.
In Curinga, a usufruire di questa opportunità non furono tantissimi ma, non furono nemmeno pochi.
Uno tra i tanti, il notissimo becchino del comune di Curinga degli anni ’40-’50 Ceneviva Emilio (Mastru Miliu), uomo umile ma, intelligente e intraprendente. Frequenta sistematicamente le lezioni proposte da questi due prelati ed impara così a leggere e scrivere, obiettivo molto ma molto importante per i tempi che si stavano vivendo.
Tieni presente che poche erano le persone che sapevano apporre la propria firma su un foglio di carta e ciò era spesso d’importanza vitale visto che, assieme al simbolo della “croce” rappresentativa della firma, delle persone che non sapevano firmare in documenti importanti, bisognava apporre la firma di un “testimone” o garante per la validità legale di certi atti. 
In ciò, Ceneviva Emilio (Mastru Miliu), costituiva una grande risorsa in quanto offriva, gratuitamente o quasi, alla popolazione, un servizio basilare.
 Era in grado di stilare significative e importanti relazioni per la Procura della vicina Maida ed in questo si è dimostrato particolarmente abile.
 Questo personaggio, assieme al parroco e al farmacista, ha per lungo tempo costituito un punto di riferimento per gran parte delle mamme curinghesi che non sapevano leggere e scrivere e che avevano i loro figli emigrati nelle Americhe.
Si recavano da questi personaggi per farsi scrivere le lettere da spedire ai propri figli emigrati o per farsi leggere quelle ricevute e costituiva questo un servizio importantissimo, fornito nella maggior parte dei casi gratuitamente o ricevendo in cambio beni naturali provenienti dalla terra come cereali, frumento, farina e altro.
Tempi veramente difficili.
 Un Calzolaio maestro di vita
(Mastru Nicola Granata)
 A Curinga, tutti conoscevano “Mastru Nicola Granata”, ciabattino stimato da tutti per la sua alta professionalità, ma anche per la sua inconfondibile ironia.
Era un Maestro di vita.
Aveva bottega in Via Roma (Sutta a Via), un solito “buco” posto in un magazzino a piano terra, col solito banco da lavoro, messo il più possibile vicino alla porta di ingresso per meglio sfruttare la luce del giorno.
Era una generazione, che faceva del risparmio una dottrina di vita, e l’uso dell’energia elettrica era per loro inteso come uno spreco, per cui, finché c’era la possibilità di sfruttare la luce del giorno lo facevano, anche a costo di patire il freddo.
Quando questo non era possibile, allora usavano accendere una lampadina, che scendeva dal soffitto, posta quasi a contatto col loro banco da lavoro; avvolta con un diffusore ad imbuto per concentrare il più possibile la luce sul lavoro che si stava eseguendo.
Scarpe da sistemare e sistemate, con forme, martelli e soprattutto ritagli di cuoio venivano accatastati in prossimità del banco da lavoro per essere più facilmente raccattati ed essere utilizzati nelle frequentissime riparazioni.
Il banco da lavoro non aveva per tutti la stessa forma: C’erano calzolai che lo possedevano con piano d’appoggio di forma circolare e altri di forma quadrata, ma entrambi i tipi possedevano dei settori realizzati con strisce di legno sottile, utili per separare i vari tipi di chiodi (simigi, spinguletti, attacci), che erano usati nella costruzione delle scarpe, i vari tipi di lesina e altro.
La pece, utile per rendere più consistente e resistente lo spago, adoperato per la cucitura delle tomaie e le setole (linziti), erano invece custode nel cassetto principale.
Per deporre i caratteristici lunghi coltelli c’era una piccola fessura, posta sotto il cassetto principale, all’interno della quale veniva deposto il coltello da lavoro quando questo non veniva adoperato; era in effetti lo strumento più pericoloso e, per questo, andava protetto e ben custodito.
La realizzazione era tutta particolare e, per quanto ricordo, si partiva dalla tomaia, più o meno dura e più o meno flessibile e morbida, scelta da un campionario che poteva essere valutato dal cliente. 
Ciò si faceva in base al tipo e all’uso che ne voleva fare delle sue scarpe una volta finite. 
Anche la suola veniva scelta nello stesso modo e quest'ultima, per una buona ora o di più, veniva tenuta a mollo nell’acqua, per poter essere lavorata meglio. 
Era il “mastro” che, una volta tagliate le varie parti che dovevano costituire la tomaia, prima ne cuciva le parti (a mano) e poi, usando l’opportuna forma in legno, la cuciva sul sottopiede. Infine gli fissava, ben cucito alla tomaia, una striscia di cuoio, il guardolo “u guarduniegghu” che la contornava interamente.
Separatamente, veniva preparata la suola che, una volta bagnata, veniva battuta sulla forma metallica che il mastro poggiava sulle sue gambe, con un martello a battuta larga, per dargli maggiore consistenza.
Veniva poi “rifilata” con le dovute tolleranze in base al numero di scarpa da realizzare.
L’operazione continuava con la cucitura tomaia – suola, attraverso un’operazione delicata che doveva ben fissare la tomaia al guardolo.
Sulla tomaia sul lato esterno, veniva praticata una scanalatura che doveva contenere e nascondere contemporaneamente lo spago usato per la cucitura.
Nel realizzarla, capirai che si richiedevano abilità e competenza da parte del mastro che, abile, riusciva perfettamente nel suo intento. 
La lesina con occhiello finale e lo spago ben fortificato dalla pece, aiutavano il calzolaio a completare l’opera.
Le rifiniture finali spettavano sempre al mastro, poiché si trattava di curare l’estetica nei minimi particolari: si rifilava il cuoio in eccesso, si ripassava di Raspa, il bordo esterno, prima con quella grossa e poi con quella di grana più fine, attraverso strofinio si ricopriva di cera questo bordo e per finire si lucidava con opportuna cromatina di adeguato colore.
Nel caso di scarpe invernali o di scarpe per ragazzi particolarmente vivaci, si procedeva ancora con l’intacciata, (sistemazione delle Bullette, chiodi a testa larga, sulla suola delle scarpe) e l’ultima lucidata veniva eseguita adoperando spesso lardo suino, opportunamente essiccato.
La consegna del “prodotto finito” era una festa, ma il pagamento del lavoro, come per ogni altra cosa, avveniva di solito dopo il raccolto.
Mastro Nicola era una persona aperta al dialogo, che provava gusto a contestare l’operato degli altri, alcune volte con pregiudizio, altre volte per pura presa di posizione; religiosissimo ma comunista, in contrasto con i preti in generale, essendo visti da lui come persone poco affidabili. 
Un aneddoto lo ricordo con piacere perché metteva in risalto la sua sottile ironia estesa anche ai fatti di chiesa e alla sua religiosità. Quando nel periodo Pasquale il Parroco si recava presso tutte le case e le botteghe per la loro benedizione, commentava sempre con i suoi amici dicendo: “si bbo’ mu la benedìcia, la benidìcia sinnò, a mmia, chiggha umidità no’ mi serva”. (Riferendosi alla sua bottega: Se vuole benedirla, la benedice altrimenti, a me, quell’umidità non serve.) Si finiva sempre con la benedizione e con preghiera annessa, rispettando quelle che erano le tradizioni di paese e facendo infine capire che ciò che affermava non era una sua assoluta convinzione.
Tra il Parroco del tempo (Don Antonio Bonello) e il Mastro, c’era, infatti, grande stima e grandissimo rispetto.