La Vendemmia e le Baracche al Mare
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Il Palmento: tra Uva, vendemmia e Vino

Non c’erano molte attività lungo questa via, o perlomeno, poche sono quelle che conservo nella mia memoria.
Ricordo il Palmento “u Parmiantu” di don Pierino Perugino, la prima costruzione posta proprio alla biforcazione di via Cristoforo Colombo in Corso Garibaldi e Via Roma.
Devi sapere che la vigna, assieme a quella dell’ulivo, era tra le coltivazioni più importanti e produttive per il paese e pertanto durante il periodo della raccolta per le strade del paese era un continuo via vai di asini dalle campagne ai palmenti e viceversa.
Le località dei vigneti, ora trasformate in zone edificate, erano Salici, Trimalo e Grillo e quelle più distanti Cerzeto e Feudo.
Coltivare la vigna era un lavoro faticoso e impegnativo perché non c’erano mezzi meccanici, tutto era fatto a mano e, in alcuni periodi era particolarmente intenso fino ad arrivare alla vendemmia che in genere avveniva nel periodo fine settembre-inizio novembre.
La vendemmia, nonostante la fatica, era considerata una giornata di festa tanto che era concesso anche ai più piccoli di marinare la scuola. Il loro contributo consisteva nel distribuire l’acqua e svuotare i panieri colmi di grappoli nei tini che venivano poi portati al palmento per la pigiatura.
Il trasporto avveniva, secondo la località, dove era ubicata la vigna, tramite i carri oppure a groppa d’asino.
Per stabilire il giorno della raccolta era vincolante la disponibilità del palmento per evitare che l’uva, se raccolta con molto anticipo, marcisse e quindi era d’obbligo prenotarsi per tempo.
Come per la mietitura anche le fatiche della vendemmia erano oggetto del “mutuo soccorso” nel senso che parenti, amici e vicini di casa nonché le bestie da soma, si associavano spontaneamente a prestare le proprie braccia, cortesia che veniva poi a tempo debito restituita.
Nel tragitto verso il palmento era d’uso, in segno di cortesia, offrire qualche grappolo agli artigiani che si trovavano a lavorare davanti all’uscio della loro bottega.

Il mosto prodotto veniva poi messo in barili che gli instancabili e mansueti asini trasportavano fino alla cantina del proprietario dove, travasato nelle botti, riposava e fermentava fino al famoso giorno di San Martino – 11 novembre – che come recita un antico proverbio “ogni mosto diventa vino”.
Nella comunità curinghese tuttavia questa data non era da tutti rispettata, i mmaculatisti ad esempio, spillavano le botti l’8 di dicembre, giorno dell’Immacolata. Un particolare … per l’uva bianca che matura in anticipo, la vendemmia veniva anticipata a settembre in modo da avere il vino pronto per la terza domenica d’ottobre quando a Curinga, come ti ho già raccontato, si svolge la Fiera dell’Immacolata e dove, nelle famose Bettole, il vino nuovo si gusta assieme alle specialità locali come il baccalà fritto, olive schiacciate e soffritto di maiale.
La Falegnameria di Via Roma e le Baracche al Mare
Risalendo per via Roma s’incontrano altre attività artigianali una delle quali era la Falegnameria di Mastro Venanzio Cannella importante perché, a quest’attività erano legate altre tradizioni locali che ti voglio raccontare perché penso, ne valga la pena.
Mastro Venanzio Cannella era particolarmente noto in Curinga perché, assieme a Mastro Nicola Veneziano, è stato il pioniere tra i costruttori di Baracche al mare quando queste, alla fine degli anni ’50 e negli anni ’60 e ‘70 prendevano il posto dei poco igienici, insicuri e scomodi capanni di paglia, usati dai curinghesi per trascorrere le loro “ferie” al mare, “a la Prajia de Curnga”.

Usanza che costituisce una pagina di storia locale che vale la pena ricordare.
Quest’anno scendiamo al mare?
Era la domanda costante che i bambini rivolgevano alle proprie mamme durante il periodo invernale, e si entrava in una frenetica attesa quando si avvicinava fine maggio e la chiusura delle scuole nel mese di giugno.
Era l’evento atteso da tutti, compresi i nonni che, al mare e con il sole leone, potevano alleviare i loro “dolori reumatici” praticando la termoterapia con le “Stufe” (buche praticate nella sabbia rovente, entro le quali ci si sdraiava, avvolti da lenzuola, e interamente coperti di altrettanta sabbia rovente, per una buona mezz’ora).
Erano i medici del tempo che consigliavano questa terapia e, a sentire il parere di chi la praticava, si rivelava molto efficace.
Il trasferimento al mare, era preceduto da una lunga serie di preparativi alla quale bisognava assolvere e che riguardava, chi per un verso chi per un altro, tutti quelli che vi erano coinvolti.
I bambini ed i ragazzi venivano portati dai genitori da uno dei numerosi Barbieri presenti sul territorio di Curinga ed erano i primi a sottoporsi alla “rasatura totale dei capelli” perché, il rientro al paese poteva protrarsi per lungo tempo.
Erano poi coinvolte le donne che preparavano, tra le tante provviste, una o due fornate di pane ed altrettante fornate di fragranti Biscotti al finocchio (Viscottina); selezionavano pentole e pentolini da portarsi dietro compresi piatti, forchette, coltelli, cucchiai ecc., che provvedevano ad inscatolare ben bene per evitare eventuali rotture durante il “travagliato” viaggio.
Era coinvolto il “mastro” prescelto per costruire la Baracca, perché doveva ben attrezzarsi per poi assolvere al suo dovere di costruttore.
La sera della partenza era caratterizzata da una serie di attività frenetiche atte a caricare sui primi camion (o sul carro) tutta la roba utile alla permanenza, e finita questa preparazione, si partiva, in piena notte per raggiungere la spiaggia.

La costruzione della Baracca seguiva diverse fasi, ognuna delle quali propedeutica alla successiva.
La prima era la più faticosa, perché si trattava di scavare almeno otto buche, profonde almeno un metro, per poter fissare in esse i pali portanti della struttura (murali).
Su questi venivano inchiodate le tavole che costituivano poi le pareti della Baracca.
La disposizione dei “murali”, apparentemente semplice, richiedeva la massima attenzione da parte del “Mastro costruttore “per evitare che la struttura fosse fuori squadro.
Le “malefatte” risaltavano facilmente all’occhio, e ciò costituiva oggetto di scherno per i “mastri improvvisati” costruttori di tali opere.
Per evitare “brutte figure” veniva predisposto un lungo filo sul quale venivano misurate tre dimensioni, ognuna delle quali ”segnalata da un nodo”, apparentemente insignificante, ma che delimitava invece i lati di un triangolo rettangolo, quando questo veniva poggiato sul terreno ben spianato e con tre pioli infissi nella sabbia proprio nei punti in cui erano stati praticati i nodi.
Era la “Terna Pitagorica”, usavano cioè la regola del 3 – 4 – 5 che fornisce, secondo il teorema di Pitagora, le dimensioni di un perfetto triangolo rettangolo i cui cateti misurano 3 e 4 metri mentre l’ipotenusa misura 5 metri.
Non era necessario usare la livella per stabilire la perfetta orizzontalità al tetto, perché bastava guardare l’orizzonte sul mare per essere certi che ciò fosse rispettato mentre era necessario decidere la pendenza dello stesso tetto (lato mare o, lato monte) per far defluire l’acqua piovana.
Tale scelta era spesso legata al “sentito dire”, cioè all’esperienza acquisita negli anni dai vecchi “prajuoti” quale ognuno si sentiva.
L’ultima fase consisteva nel sistemare le lamiere metalliche di copertura o, per chi lo preferiva, un grande telone impermeabile, ben fissato sui quattro lati della baracca, che ben costituiva la sua copertura.
Quest’ultima soluzione aveva il vantaggio di garantire durante il giorno una maggiore frescura all’interno della baracca sotto il sole leone, ma aveva contemporaneamente lo svantaggio di una maggiore vulnerabilità alle intemperie che, inevitabilmente, si presentavano ad ogni fine stagione estiva e che potevano mettere a repentaglio la incolumità dei proprietari.
Completato il lavoro di costruzione, era compito delle donne ripulire lo spazio calpestabile interno, e sistemare le varie suppellettili secondo le proprie esigenze.
La Cucina era costituita da un corpo separato, costruita dietro la Baracca, lato monte, ed era formata da una struttura di legno “fhurchi e pali de livara” e tante canne, legati tra loro col fil di ferro.
Veniva ricoperta con felci, con canne o con frasche tagliate sul terreno demaniale dietro la pineta, dove crescevano arbusti naturali con molte foglie che ben riparavano dal sole d’agosto. Le stuoie di canne non esistevano ancora.

Costituiva uno dei giocattoli preferiti per i più piccoli che la portavano ovunque andassero, soprattutto in acqua durante il bagno.
Oggi, questi luoghi, sono occupati da fiorenti vivai e aziende agricole a coltivazione intensiva di alta qualità, che producono frutta e verdura rivenduta poi nei mercati ortofrutticoli di tutta Europa.
Le frasche, alla fine della stagione estiva, costituivano una ulteriore risorsa, perché venivano raccolte, legate in fasci e portate a casa per essere poi utilizzate per alimentare il fuoco dei forni, per cuocere il pane o per bollire i pomodori per la salsa.
Per molte famiglie contadine, il trasferimento al mare costituiva una fatica giornaliera in meno visto che le terre da coltivare erano più vicine e più facilmente raggiungibili.
In località Canneto si trovavano, infatti, i terreni concessi loro con “diritto di coltivazione” ma anche quelli di proprietà non distavano molto visto che la maggior parte di questi si trovavano in località Piana, Moddone, Laganello e Sirene, luoghi dove si coltivava ogni “ben di Dio”.
La sera, al rientro dei contadini con i loro Asini, le Baracche si popolavano perché arrivavano dalle campagne leccornie che venivano distribuite tra tutti i vicini ed era così possibile assaggiare i primi fichi stagionali, mandorle, prugne, meloni, zibibbo, pere, oltre ai freschi pomodori che, tagliati e conditi adeguatamente, formavano insalate profumate e saporitissime che sfamavano in modo soddisfacente tutte le famiglie.
Capitava di vedere al mare anche qualche maiale e molti polli e galline, utili per le uova o per la carne che potevano fornire e che costituivano anch’essi una risorsa importante.
L’ovetto sbattuto, era riservato ai bambini esili e cagionevoli in salute, ma l’uso dello scambio gratuito di prodotti provenienti dalla terra, era una tradizione che rafforzava le amicizie tra famiglie.
Come si possono dimenticare quei grandi tegami di “Peperoni e Patate fritte”, le Braciole di Patate, le Melanzane ripiene con del buon salame locale, le gigantesche angurie e la frutta di ogni tipo che si scambiava, con cadenza quasi giornaliera, tra villeggianti vicini di capanna o di baracca.
Un “mutuo soccorso” che si praticava tra tutti i vicini, nessuno escluso.
Era un modo di vivere tutto particolare, quasi primitivo, senza energia elettrica e quindi senza Radio e senza Televisione, con l’acqua potabile attinta da un pozzo “Sena” costruita a inizio stagione con la collaborazione di tutti i bagnanti del rione.
Anche questa era una usanza popolare che prevedeva la costruzione di una Sena per ogni rione, in modo da poter disporre di acqua potabile necessaria per poter cucinare, ma anche per assolvere ai propri bisogni igienici.
Ti racconto adesso come venivano costruite le “Sene” e ti spiego la tecnica usata per creare questo posto dove i villeggianti si recavano con bidoni e contenitori vari per approvvigionarsi di acqua potabile.
Veniva scavata una enorme buca dietro la lunghissima fila di baracche e capanni, con opera manuale prestata gratuitamente da parte di tutti i vicini e dei possibili utilizzatori.
Veniva poi depositata, a partire dal fondo, una colonna di tubi in cemento posti l’uno sull’altro, con quelli posti più in basso a “pescare” nell’acqua dolce.
Man mano che si risaliva verso l’alto, i tubi venivano ben incastrati uno sull’altro e contornati di sabbia in modo da rendere la colonna più solida possibile.
Tutto questo fin quasi a raggiungere la superficie del terreno sabbioso.
L’acqua potabile, prima dell’avvento delle pompe a manovella, veniva attinta con un barattolo legato ad una estremità di una lunga canna, tanto lunga da raggiungere l’acqua posta sul fondo.
Riempire un bidone di acqua non era quindi facile ed immediato anzi, era abbastanza lungo e faticoso; spesso si formavano lunghe file di attesa.
In questo luogo, il fuoco per poter cucinare, era alimentato da legna secca recuperata sulla enorme distesa di sabbia dove veniva spiaggiata dal mare durante le mareggiate invernali dopo averla ricevuta dai vicini fiumi Amato, Turrina e Randace, posti ai limiti estremi della spiaggia curinghese.
Anche i fiumi costituivano fonte di ricchezza perché, oltre al rifornimento continuo di legna per la cucina, venivano sfruttati per la pesca delle anguille che copiose popolavano il loro greto.
Una pesca praticata da molti perché facile da eseguire.
Bastava disporre di un filo, legare ad una sua estremità un ciuffo di Lombrichi (“vermi”), disporre di un ombrello dentro il quale far cadere le anguille pescate e il gioco era fatto.
Gli appassionati dedicavano molte delle loro serate estive a questo tipo di pesca.
I più esperti e quelli più spregiudicati, praticavano la pesca alle anguille usando piante particolari (piperia) che macerando in acqua, la impoverivano di ossigeno costringendo così le povere anguille a emergere per respirare e, impotenti si lasciavano catturare con facilità.
La tecnica, anche se proibita dalla legge forestale, veniva di nascosto utilizzata, e quando si praticava, erano “anguille per tutti”. Nel dopo bagno, non shampoo e teli da mare all’ultimo grido e nemmeno tanti ombrelloni colorati sulla spiaggia ma, lenzuola di lino tessuti in casa, legati a due o quattro canne, per fare ombra e potersi riparare dal cocente sol leone, e semplici tovaglie o lenzuola per le signore più in carne, anch’esse rigorosamente di lino, per asciugarsi, dopo il bagno nelle limpide acque del nostro mare.

Erano comunque, le generazioni che hanno fatto ombra “con un lenzuolo e due canne”.
Non posso esimermi dal fare almeno una citazione per un “Omino piccolo”, anziano e di carattere mite soprannominato: “Carmelo Vecchia”, che in quel periodo girovagava sempre sul litorale del golfo di Lamezia, e si tratteneva sulla nostra spiaggia.
Nessuno ha mai saputo quanti anni avesse e, forse, nemmeno lui conosceva perfettamente la sua età ma, di certo, era di età avanzata e si presentava anno dopo anno, sempre nelle stesse condizioni, con lo stesso vestito, con lo stesso volto scarnito e segnato da rughe profonde, con la stessa disinvoltura, con la stessa struttura fisica come se per lui, il tempo non fosse mai passato.
Tutti formulavano ipotesi sull’età di questo piccolo uomo: chi gli dava settanta anni, chi ottanta e chi addirittura novanta e oltre; nessuno, in realtà, ha mai saputo quale fosse la sua vera età.
Era comunque di una sensibilità estrema tanto da suscitare tanta tenerezza, ed era per questo sostenuto da tutti: chi gli offriva un piatto di pasta, chi gli regalava biscotti fatti in casa, chi un pezzo di pane, qualche polpetta, pomodori, uva, fichi e, tanto altro e lui, non trascurava dal ringraziare, ma aveva anche capito che il periodo estivo lo poteva tranquillamente trascorrere sulla spiaggia di Curinga dove aveva trovato molta generosità nel popolo curinghese.
Non ha mai dato fastidio a nessuno perché ha sempre saputo rimanere al suo posto: dormiva, avvolto in una coperta che portava sempre con sé, su giacigli fatti di sabbia, o di semplice paglia e solo in rari casi tra lenzuola e sotto decenti coperte.
Per tutti ha avuto sempre buone parole e a tutti ha dato buoni consigli di vita.
Era sempre accerchiato da ragazzi ai quali raccontava avventure, da lui vissute in prima persona sulle spiagge del golfo di Santa Eufemia.
Girovagava di anno in anno lungo il litorale tra Pizzo e Falerna, con un piccolo fardello sulle spalle e una canna o legno in mano che gli serviva non solo per sostenere gli anni della sua vita ma anche per rovistare tra le cose spiaggiate dal mare, alla ricerca di qualcosa che lo potesse sfamare.
Era, per i bambini più piccoli, il terrore, non perché malvagio o cattivo ma perché, le mamme lo additavano o lo ricordavano quando questi si dimostravano disubbidienti o non volevano mangiare.
Chiamo “Vecchia”, dicevano, e ti faccio portare via; e ciò bastava per renderli più giudiziosi e comprensivi.
Un altro personaggio che puntuale appariva sulla spiaggia di Curinga era “u Zziu Paulu”.
Un marinaio che, con la sua barca di legno e, a vela, sostava sul litorale e, la bontà e l’ospitalità dei curinghesi lo induceva a trascorrervi l’intera stagione perché a questi rivendeva il pesce da lui pescato e, in alternativa proponeva gite in barca a quelli cui era obbligato per avere ricevuto un pasto caldo durante la giornata.
Mi è stato riferito che l’usanza di andare al mare con le baracche, è durata fino agli ultimi anni ’70 quando lo stato, attraverso la Capitaneria di Porto, per difendere il Demanio dalle costruzioni abusive e per promuovere il “turismo locale e limitrofo”, ha deciso di mettere fine a quest’usanza demolendo con la forza le “povere baracche”.
Altri tempi.
Era la festa del 16 Luglio che scandiva le vacanze estive dei curinghesi, perché il giorno dopo, la maggior parte dei cittadini, si trasferiva con la propria famiglia sul litorale marino per trascorrervi il resto del mese di Luglio e buona parte del mese di Agosto.
L’unica famiglia che anticipava il trasferimento al mese di Giugno e posticipava la data del rientro all’8 Settembre, era la famiglia del Sig. Gaudino Giovambattista amante sia della pesca sia della caccia.
All’epoca si poteva godere della purezza delle acque e dell’aria salubre oggi, non più.
Peccato.