I Negozi di Piazza San Francesco
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I Negozi di Piazza San Francesco

Questo sulla destra è il Palazzo Senese con il portale bugnato sormontato dalla maschera femminile, mentre quello sulla sinistra è il Palazzo Ciliberti con portale in granito.
Ai miei tempi non era come la vediamo oggi. C’era infatti una costruzione che occupava quasi interamente lo spazio al centro della piazza con un piccolo vicolo che la separava da palazzo Ciliberti mentre alle spalle contribuiva a delimitare un tratto di corso Garibaldi alquanto stretto, tanto da rendere difficile il passaggio delle prime corriere che collegavano Curinga con Sant’Eufemia Lamezia, e, come se non bastasse, c’era un altro ostacolo da schivare costituito da un grosso anello sporgente dal muro che serviva per assicurare cavalli o asini da ferrare.
Purtroppo tutto questo non è suffragato da documentazione fotografica ma solo dal ricordo e da un quadro di Giuseppe De Pace che raffigura questo luogo. Nel quadro non sono però distinguibili ne’ la forgia di Mastro Vincenzo Mazza, gestita assieme a Giovannangelo Vono, ne’ l’attività di fruttivendolo che si trovavano in questa costruzione. La costruzione è stata abbattuta, probabilmente negli anni ’54-56. Nacque così la Piazza San Francesco che vediamo oggi, antistante proprio la Chiesa di San Francesco distrutta dal terremoto e mai più ricostruita. Al suo posto vediamo la Biblioteca Comunale, in precedenza Mercato Coperto costruito pare con il materiale derivato dalla precedente demolizione. A ricordo è stata costruita l’icona con la statua del santo. Gli anni ’50 sono stati difficili per tutti, la guerra era finita ma la ripresa economica tardava ad arrivare: povertà, fame e disperazione per il lavoro che non c’era, hanno portato ad una massiccia emigrazione, sia interna sia all’estero.
E’ stata questa la triste realtà che mi ha costretto tanti anni fa a lasciare questo paese.
In questa piazza venivano anche distribuiti i generi che arrivavano dall’America: lattine di formaggio, latte in polvere, zucchero e altro.
Ricordo ammassi di scarpe che venivano spaiate dal tira e molla nella foga all’accaparramento e per poter formare il paio, era poi necessario rintracciare la persona che possedeva l’altra giusta per lo scambio, per entrambi il vantaggio di avere alla fine ricomposto “un paio di scarpe”.
Proprio accanto al portone d’ingresso di Palazzo Senese c’era un altro fruttivendolo, quello di Gregorio Curcio chiamato “Griguori”.
Il locale era un budello lungo e stretto e perennemente si trovavano le cassette vuote accatastate fuori dalla porta.
Apparteneva a una famiglia di commercianti, attività seguita anche dalle nuove generazioni della stessa famiglia.
Proprio accanto c’era la bettola di Giuseppe Tondo, un uomo bassino ma energico e brillante.
All’interno non c’erano botti ma solo damigiane impagliate da 50 litri poggiate sul banco e una mensola sulla quale erano disposti i bicchieri e i vari contenitori di misura (il quarto, il mezzolitro, i litri e i due litri) tutti in numero di tre o quattro per misura in modo da poter servire contemporaneamente più persone.
Anche in questa bettola si giocava a carte ma, a differenza delle altre, qualora mancasse il quarto, niente paura, era lo stesso Tondo a occupare il posto.
Un particolare, riconosciuto come un fervente comunista, la sua bottega veniva evitata da chi manifestava idee politiche diverse.
Una famiglia di commercianti.
La Biblioteca Comunale

Proprio in questo periodo fu abbattuto il chiosco di frutta e verdura, costruito probabilmente da Mastro Nicola Veneziano, che si trovava nella piazza San Francesco e veniva utilizzato dalla mamma dei fratelli Curcio (Celestino, Gregorio, Celestina, Mimma e Giuseppe detto Peppone).
Dopo la demolizione l’esercizio si trasferì in un angusto locale accanto all’attuale minimarket e qui oltre alla vendita della frutta la signora Curcio riciclava ferro vecchio, alluminio, olive ecc.
I clienti più assidui erano i ragazzi che facevano razzia di lattine, barattoli e olive che raccoglievano nei sentieri spinosi delle vicine campagne. Il ricavato serviva per comprare i fumetti “in” dell’epoca: Tex, Sciuscià, Piccolo sceriffo, Akim, Intrepido e Capitan Miki.
All’angolo con salita mercato c’era il negozio di tessuti di Emanuele Vono ereditato alla sua morte dalla cognata donna Giovanna Zarola che lo ampliò e modernizzò con confezioni, articoli di classe e buona qualità.
Ed ecco la biblioteca, dove ai miei tempi c’era il mercato comunale coperto e ancor prima, raccontava mio padre, c’era la chiesa di san Francesco distrutta dal terremoto del 1736 e mai più ricostruita.
Come ti ho già detto, a ricordo di ciò, ritroviamo la statua di san Francesco in quella piccola nicchia che domina la Piazza.
All’epoca del mercato, l’interno era arredato con i banchi vendita assegnati e ben ordinati.
Ricordo che era sempre affollatissimo, con un vocio che si diffondeva per tutta la piazza, soprattutto quando il banditore aveva annunciato l’arrivo del pesce fresco da Pizzo.
In questo nostro percorso ti voglio raccontare anche quello che mi raccontava mio nonno e cioè degli scambi commerciali importantissimi per il paese, che avvenivano nel largo sopra il mercato coperto “u chjanu de menzalora”.
A ricordo esistono ancora i misuratori in granito “a menzalora” che veniva usata per la misurazione del grano e dei vari cereali che erano prodotti nelle terre di latifondisti e contadini Curinghesi.
Era inoltre il luogo di commercio dei finimenti per asini, cavalli, buoi e “birocci” che erano particolari carrozzelle a due ruote trainati da cavalli.
Di tutto questo rimane solo la denominazione del luogo e a menzalora in granito, sempre al suo posto, quasi nell’attesa di qualcuno che ne faccia uso.
Il minimarket che segue la biblioteca è in sostanza sempre esistito, non sotto questa veste moderna con banchi self service, ma come comune negozio di generi alimentari.
Era l’Emporio di Franca Currado “Chicchina”, diventato poi il minimarket del prof. Mazzotta.
Donna Franca Currado venne riconosciuta e insignita di benemerenza dalla C. d. Commercio, per i suoi 30 anni di dedizione al lavoro.
Questo, come puoi vedere, è l’unico esercizio ancora attivo in questa piazza a testimoniare la vitalità commerciale passata, che ha visto dal Fabbro alla Cantina, ai generi alimentari, al consorzio agrario, al fruttivendolo, non mancando una Macelleria, un Caseificio, e perfino un Orologiaio, anche se posto nel vicolo che collega Piazza San Francesco con Via Roma.
Quasi a dispetto di quanto sto cercando di ricostruire con la memoria oggi questo posto è diventato un susseguirsi di serrande chiuse e un parcheggio animato dalle poche persone che frettolosamente transitano a piedi.
Per lungo tempo Palazzo Ciliberti ha ospitato il Municipio.

Carni sempre fresche e di qualità nel frigo ma, com’era uso, agnelli e capretti erano appesi all’esterno soprattutto nel periodo di Pasqua.
Sul lato sinistro della piazza ricordo un altro fruttivendolo, De Summa, posto di fronte al tabacchino in questo garage, sotto casa di De Sando Tommaso detto “Tommu”.
A mia memoria, l’ultimo negozio in piazza san Francesco è stato quello delle sorelle Mazza.
Un negozio di abbigliamento che si distingueva per la qualità dei prodotti, ma certamente tra i pochi per eleganza e buon gusto.
Lo stesso locale, affiancato a palazzo Ciliberti, in precedenza ha ospitato la latteria e caseari di Rocco Aracri.
L’orologiaio del vicoletto veniva da San Pietro a Maida e, dovendo usufruire della corriera per il pur breve viaggio, svolgeva la sua attività adeguandosi agli orari stabiliti … pena coprire il percorso a piedi! come a dire … stava sempre a guardare l’orologio!
Crivari e 'Mbastari
Ora sediamoci su quella panchina perché è il momento di parlarti di due vecchi mestieri che non incontreremo in questo percorso: “u crivaru” e “u mbastaru”.
Il primo - “crivaru” - era così chiamato perché oltre a cesti, panieri, sporte e cuofhini, costruiva “u crivu”: era questo un setaccio indispensabile per separare il grano o l’orzo dalle impurità.
L’altro - “mbastaru” – costruiva “u mbastu”, da cui il nome, cioè una rustica sella che era usata soprattutto per il carico di asini e muli, nonché selle e finimenti vari.

L’unico artigiano sellaio a Curinga, a mio ricordo, è stato Francesco Bianca che lavorava in una piccola bottega situata sotto la sua abitazione ubicata ai piedi di Via Ospizio nel vicoletto denominato Corso Garibaldi, ma dietro la Chiesa dell’Immacolata.
Giacomino Gargano e Saverio Russo erano i due crivari di Curinga, il primo operava sotto il muro di Piazza Marconi (Pruscinu), il secondo nella sua abitazione che si affacciava su Piazza Immacolata.
Come ti ho accennato questi costruivano cesti di varie fogge in relazione all’uso cui erano destinati (panari per la raccolta di uva, olive o frutti; cesti da trasporto come i cuofhini; cesti per uso domestico), i crivi e il rivestimento delle damigiane in vetro.
Anche i materiali con cui erano costruiti variavano secondo l’uso: per i cesti da bucato “cistuni” si adoperava la canna opportunamente essiccata, i cesti da trasporto d’asino (cuofhini) erano costituiti con polloni e giunchi selvatici che abbondavano nelle zone paludose della nostra marina.
Infine per i panieri da raccolta di olive si usava la canna più sottile mentre i manici erano costituiti da polloni intrecciati.
Le materie prime erano quindi i polloni (rami dritti che crescono alla base dell’albero e che solitamente vanno eliminati) di olivo o di olmo, oppure canna o vimini.
Devi sapere che per fare i cesti, i polloni di olivo dovevano essere flessibili e di dimensioni pari alla grandezza del cesto che si doveva realizzare.
Quando si voleva aggiungere un po’ di arte nella lavorazione o un po’ di colore, si utilizzavano giunchi selvatici, molto flessibili che abbondavano nelle zone paludose della pianura di Curinga, e polloni di melograno, melocotogno, mirto selvatico e salice che non era però facilmente reperibile.
La raccolta, la scelta e la preparazione (pulitura ed essiccatura) dei materiali era fatta dagli stessi maestri che abitualmente lavoravano sull’uscio di casa con il materiale tutto intorno.
Ti dico semplicemente che la lavorazione non prevedeva l’uso di utensili specifici se non di un coltellino ben affilato per pulire e tagliare rametti, polloni e canne.