Dalla Macelleria al Sali e Tabacchi

Una Macelleria e la tradizione del Maiale

 Di seguito, troviamo un locale che da sempre e fino a poco tempo fa ha ospitato una macelleria.
Negli anni si sono succeduti vari gestori ma soprattutto sono cambiati, nel senso dell’ammodernamento, i sistemi di conduzione.
All’epoca dei primi gestori, i fratelli Giuseppe e Pietro Mazzotta, le carni, di provenienza da allevamenti locali, erano appesi “a quarti” con degli enormi ganci e quindi a vista degli avventori.
La testa dell’animale, era addirittura appesa all’esterno a indicare la qualità e il tipo (vitello, agnello ecc.) di prodotto.
Ricordo ancora il sangue che colava dalla testa dei capretti o agnelli appesi e che scorreva in rivoli lungo la strada.
Da questo sistema, per quanto di sapore macabro - folkloristico, si è man mano passati agli attuali metodi dettati dalle norme igieniche e professionali, sono arrivati i grandi Frigoriferi.
Dai Mazzotta passò a un proprietario di origini spagnole in società con Antonio Trovato di Curinga, poi si sono succeduti tanti altri nella gestione.
La carne di vitello era considerata un alimento di lusso che non tutti si potevano permettere se non nei giorni di festa, mentre in quasi tutte le famiglie era uso allevare il maiale che, opportunamente preparato e conservato “sarvara u puarcu”, costituiva la riserva di carne per un intero anno.
Il maiale veniva in genere comprato appena svezzato alla fiera “da Nuzziata” ad Acconia e poi allevato e curato.
L’estate seguiva la famiglia al mare!
Nel periodo invernale avveniva la macellazione.
Nei mesi di gennaio e febbraio nelle vie e vicoli del paese, la mattina presto, era un udire continuo di grugniti, che si trasformavano presto in urla, dei maiali di turno che venivano sgozzati.
Nella cultura paesana l’uccisione del maiale era un giorno di festa sia per la famiglia sia per quanti vi partecipavano, ma soprattutto per i bambini che, coinvolti in attività non ordinarie, si sentivano grandi.
 Il maiale veniva messo sullo “scanno” e tenuto fermo dalle robuste braccia di quattro uomini mentre un quinto (esperto) provvedeva a conficcare l’affilato coltello nella giugulare; era invece compito di una donna provvedere alla raccolta del sangue in un apposito recipiente mescolandolo continuamente per evitare che si raggrumasse. 
Si passava poi alla pelatura dopo aver versato su tutto il maiale l’acqua bollente prelevata dalla “coddara” (grande calderone) che, posta sul fuoco all’alba, dava il via: “a coddara gugghjia, potimu cominciara”.  
Si dice anche che “del maiale non si butta niente” e questo è vero, soprattutto a quei tempi, perché tutto era trasformato e conservato in numerosi prodotti: strutto, salsicce, soppressate, capicolli, guanciale, e poi polpette, gelatina, sanguinaccio e addirittura le setole grosse “nziti” in genere della coda, che erano utilizzate dai calzolai per i terminali dello spago.
 
Per la preparazione degli insaccati la carne veniva tagliarla “accijata” a cubetti, salata e dopo averla amalgamata con la conserva di peperoni rossi e aromatizzata con spezie, insaccata nelle budella accuratamente lavate, si soleva dire “a li sette fhjumari”.
 Una preparazione particolare richiedeva il sanguinaccio: veniva cotto a bagnomaria dopo l’aggiunta, nelle proporzioni ottimali, di vino cotto, zucchero, cacao, cioccolata, cannella, noci, nocciole e bucce di mandarino.
Conservato in vasetti di vetro, era consumato come dessert.
La lavorazione del maiale terminava con il momento della convivialità a tavola: “Ragù, suffrittu, fhrittuli, gambuni”, il tutto innaffiato dal buon vino locale. Momento importante di aggregazione e condivisione.
 Oggi troviamo di tutto e di più nei supermercati, ma di quei prodotti antichi, di quegli odori e di quei sapori ne posso conservare solo il ricordo.
Un Sarto particolare ed un negozio di stoffe
Sembra incredibile ma in questo vicoletto cieco si trovava la bottega di un altro sarto, noto in Curinga perché l’unico specializzato nella confezione di un componente importante del costume tipico curinghese: “u mbustu” (il busto).
Non sono sicuro ma mi sembra che il suo nome fosse Domenico Trovato che, emigrato in America, al rientro al paese ha portato con sé una macchina per cucire insolita, con la quale realizzava questo elaborato capo, completamente artigianale, e di cui si conserva solo qualche traccia.
 Il costume tipico di Curinga era costituito da vari capi alcuni dei quali assumevano un significato e quindi trasmettevano un messaggio diverso secondo il colore: “u pannu” delle ragazze nubili era color amaranto, quello delle donne sposate era rosso mentre quello delle vedove era nero.
Anche le differenze circa i tessuti con cui erano confezionati i capi, come pure la ricchezza ornamentale, erano un indice del ceto sociale e delle condizioni economiche.  
Questo accanto è stato il negozio di mastro Natale Domenico Pallaria ereditato poi dal figlio Totò.
A quei tempi era un negozio di tessuti e filati da telaio e da ricamo. 
Erano tante le ragazze ricamatrici sia presso il laboratorio delle suore che dalle “maistre”, esperte di ricamo che insegnavano l’arte alle giovani.
Recarsi dalla maistra costituiva l’occasione, spesso l’unica, per incontrare l’innamorato o comunque scambiarsi uno sguardo … anche se da lontano.
Bisognava accontentarsi e … aspettare il matrimonio.
Altri tempi!
 Ma torniamo al negozio di Totò Pallaria: negli anni fu arricchito con un reparto abbigliamento e calzature, ubicato nel locale quasi adiacente con un’ampia vetrina che metteva in bella mostra gli articoli che si potevano acquistare.
In tempi diversi, nei due locali sotto casa Giuseppe Pallaria, ricordo due rivendite di frutta e verdura.
Del primo era gestore Santo Federico che ha poi lasciato l’attività e il locale divenne il reparto abbigliamento di Pallaria. 
Del secondo, che ha operato in tempi diversi, era gestore Giuseppe Curcio detto “Peppone”. 
Quest’ultimo si trasformava nel periodo della fiera dell’immacolata in bettola e le varie pietanze erano preparate in quest’angolo all’aperto, mentre i profumi stuzzicavano i passanti e la folla di visitatori. 
Peppone era anche il “banditore” che sostituì Sebastiano Trovato nella divulgazione di notizie circa prodotti, attività o eventi che si svolgevano in Curinga.
C’era di che divertirsi quando il gestore del cinema Diana affidava loro l’avviso di annunciare il film in proiezione: scriveva nomi e titoli in inglese!
Immagina cosa poteva venirne fuori! …
Un Ferramenta ed un generi Alimentari
 Sul lato opposto della strada c’era la bottega di calzolaio di Giovambattista Grasso. Bravo suonatore di mandolino era spesso ingaggiato per le famose “serenate”, accompagnato dal chitarrista di turno. Oggi l’evoluzione sociale ha cancellato questo modo di dichiarare il proprio amore e la tecnologia ha sostituito le melodie del passato con sterili messaggi.  Prima di procedere oltre ti voglio parlare del negozio di ferramenta di mastro Giovanni Curcio. 
Come tutti i negozi di ferramenta era fornito di tutto ciò che necessitava ai vari artigiani nello svolgimento delle attività, per cui si trovava dalla vernice ai chiodi, dal cuoio per i calzolai agli attrezzi per la campagna e tanto altro.
Qui si potevano trovare anche i “puosti” che erano quei chiodi particolari per la ferratura dei cavalli.
Mastro Giovanni coltivava anche la passione per la musica, suonava la tromba nel gruppo bandistico diretto dal maestro Alfredo Esposito e, successivamente, dal maestro Pomparelli.
La moglie di mastro Giovanni apparteneva alla numerosa categoria delle donne tessitrici ma all’occorrenza aiutava il marito nel negozio senza trascurare le attività domestiche.
 Le donne dell’epoca, come hai potuto notare, colmavano anche il più piccolo spazio con qualsiasi attività, … le quattro chiacchiere con la comare si scambiavano mentre le mani lavoravano! 
Era di uso comune recarsi dall’amica per … svagarsi un po’ … ma sempre portando con sé il lavoro.
A tal proposito si ricorda un’iconografia del 1822 che si riferisce al costume Calabrese, attribuita al Della Gatta, dal titolo “Costume d’andar facendo tre mestieri” (da speciale l’AGORA’ – marzo 1997).
 Ricordo, anche se vagamente, che in questo largo si affacciava la bottega di Tommaso Sorrenti, che alternava l’attività di calzolaio con il lavoro nei campi.
Certo ti sembrerà strano, continuo a parlarti dei posti, dove ho vissuto, descrivendoti la vita e l’operosità che li riempiva, ma ormai come puoi vedere sono completamente trasformati; le botteghe artigiane sono diventate garage con immancabile serranda, i piccoli esercizi commerciali hanno lasciato il posto ai supermarket, nessuno si ricorda delle calzolerie e neanche a parlarne dei fabbri ferrai!
 Proprio sotto casa Cirianni, Giuseppe Perugino vendeva il pane sfornato nel suo forno a legna sito in zona San Giuseppe.
Questo negozio originariamente di generi alimentari si poteva definire un emporio perché trattava le merci più svariate.
Il primo impatto era con le scarpe costantemente esposte fuori dalla porta.
Negli anni successivi in questo posto Pietro Dedato, di professione sarto, ha messo su un negozio di abbigliamento con annessa sartoria che forniva anche il servizio per piccole modifiche.
 Ancora due negozi e arriveremo in piazza san Francesco che, ai miei tempi, rappresentava il centro delle attività commerciali del paese.
Il primo negozio che si affacciava nella piazza era di Vincenzo Cefalì.
 Questo esercizio, che fungeva da “consorzio” agrario perché forniva sementi, cereali vari e piantine da vivaio, era specializzato in stoccafisso e baccalà sia sotto forma di “chjiappe salate” che già spugnato e pronto per la cucina.
 Tre vasche con acqua corrente contenevano le chjiappe curate con tanta maestria prima di arrivare sulle tavole.
Il negozio non aveva ritmi sostenuti ed era frequente trovarsi in animate disquisizioni con gli amici che erano soliti intrattenersi.
A seguire il “Sali e Tabacchi” di Domenico Cefalì.
 Come molti altri anche questo negozio non si limitava ai beni specifici ossia sigarette e francobolli, ma era fornito come una discreta cartoleria e generi alimentari dov’era possibile anche farsi preparare un croccante panino con la profumata mortadella appena affettata.
 Un dato curioso: i due esercizi alimentari e tabacchi per le norme vigenti all’epoca erano regolati da orari di apertura al pubblico differenti.
Poiché i due esercizi occupavano lo stesso locale, fu adottata un’idea ingegnosa!
Soluzione: una tenda a fiorellini partendo da un angolo del bancone divideva in diagonale il locale separando i due esercizi nel rispetto delle normative.
Di temperamento facilmente irritabile non ammetteva repliche, ad esempio quando il resto di una spesa era costituito da due o tre lire veniva frequentemente sostituito da caramelle e, guai a protestare!