Il periodo Fascista e l'Emigrazione

Gli anni bui del periodo fascista.

 Io, prima ancora di tuo padre, ho vissuto i periodi bui del Fascismo e posso affermare che i tempi non erano per niente facili.
Tuo padre, è invece un figlio del “dopo guerra”, e come tale ha vissuto anche lui il suo tempo giovanile con tutti i problemi che questi tempi propinavano.
Da certi punti di vista, ha avuto la fortuna di non essere nato durante la guerra, di non averla vissuta e di non avere nemmeno vissuto il periodo fascista, perché di questo e su questo, ne ho vissute e sentite raccontare tante, e . . . di tutti i colori.
I problemi, sorgevano dal fatto che c’era poco lavoro e quello che c’era era solo manuale e svolto prevalentemente nelle campagne, che rendevano sempre meno e che davano insufficienti utili per mantenere una famiglia o per metterne su una propria.
Chi lo faceva sapeva di andare incontro a difficoltà di vita non indifferenti e, chi non ce la faceva era perché il lavoro era poco e poco remunerato.
La decisione ultima era dettata quasi sempre dalla disperazione, e spesso, era quella di emigrare in altri posti lontani, sperando di poter vivere una vita migliore.
Brutta esperienza dover separare con l’emigrazione la propria famiglia, ma quel che era ancor peggio, era l’essere costantemente sorvegliati ed essere condizionati nel parlare, nell’agire e nell’operare, perché comandava il Duce e a lui tutto era dovuto; era il “regime fascista”.
 L’imperativo era “ordine e disciplina” e, nel nome di questi due falsi ideali, a Loro, tutto era concesso e tutto era dovuto.
Avevano messo su una organizzazione militare capillare che riusciva a controllare ogni angolo del paese, e con le scorribande delle “squadre fasciste”, riuscivano a mettere a tacere quei poveri cittadini che speravano e promuovevano un mondo migliore, ma soprattutto libero.
Il regime centrale voleva ordine e disciplina, e per mantenere ed ottenere quest’ordine e questa disciplina, si cominciava dai più piccoli, dai ragazzini che frequentavano le scuole elementari, obbligandoli in gesti e operazioni completamente estranee ai loro desideri e alle loro volontà.
Era questa la “Scuola Fascista di Regime”.
La missione educativa di questa Scuola, era quella di preparare i fascisti del domani e questo era il compito primario “dell'Opera Balilla” che gestiva ragazzi e ragazze fin dalla tenera età.
L'Opera Balilla attuava i suoi fini per mezzo delle quattro organizzazioni militarmente ordinate dei Balilla e degli Avanguardisti, per i maschietti; e delle Piccole e delle Giovani Italiane per le femminucce.
Secondo la legge che istitutiva l'Opera Balilla (1926), avevano titolo all'assistenza dell'istituzione i ragazzi dagli 8 anni sino ai 18 anni, attraverso una tessera speciale che veniva concessa ai bimbini e alle bambine, anche in età inferiore ai sei anni, le cui famiglie ne facevano richiesta.
Una volta affiliati venivano chiamati rispettivamente Balilla e Piccole Italiane.
I bimbi da 6 a 8 anni, detti "Figli della Lupa" portavano una divisa particolare, su cui spiccava la tradizionale Lupa di Roma, che allatta Romolo e Remo.
Dall'8° al 12° anno di età i Balilla erano escursionisti, dal 12° al 14° anno Moschettieri; dal 14° al 16° anno c’erano gli Avanguardisti, ed infine dal 16° al 18° i Mitraglieri.
L'organizzazione femminile comprendeva le istituzioni delle Piccole Italiane (dalla nascita sino ai 14 anni), e delle Giovani Italiane, (14 - 18 anni).
Le attività di queste istituzioni organizzate, erano quelle che si addicevano alla loro età, al loro sesso, alle funzioni che dovevano esercitare nella società fascista, e consistevano in corsi di taglio e cucito, ricamo, corsi di igiene, pronto soccorso, puericultura, economia domestica, ginnastica ritmica, gite ed escursioni.
(Questo racconta la storia)
Per Curinga, la casa colonica rimane luogo simbolo del tempo a testimonianza di tutto questo, perché costituiva il posto dove i Giovani Balilla e le Giovani Italiane venivano addestrate a questo tipo di attività.
Ho sentito raccontare di scorribande di squadre fasciste in piccoli centri rurali, con lo scopo di mettere paura alla povera gente e, quando possibile, violentando anche le giovani ragazze del posto.
Era un potere incontrastato, e nel nome del Duce e del Fascismo, bastava indossare una “camicia nera” e portare un manganello appeso alla cintura dei pantaloni per ridurre alla obbedienza anche il più aitante e rivoluzionario dei cittadini.
In questo periodo, nel nome del Fascismo e del Duce, si sono commessi tanti crimini e tanti soprusi che è impossibile raccontarli tutti.
 I piccoli centri erano in parte al riparo da queste scorribande fasciste perché la viabilità lasciava spesso a desiderare, ma anche perché la povertà imperava, e su questa, poco avevano da guadagnare.
L’eco di questi comportamenti raggiungeva però ogni località, anche il luogo più remoto di questa terra, e i prepotenti del posto ne approfittavano per mettere in atto ogni sorta di sopruso, sempre per conto e per nome del Duce e del Fascismo.
 Ti racconto adesso un aneddoto, col semplice scopo di farti capire meglio quali fossero i tempi vissuti nel periodo Fascista.
Qualcuno forse, ricorderà ancora di due personaggi, appartenenti a schieramenti politici opposti (uno, acerrimo sostenitore del Fascismo (V. B.), l’altro un accanito e convinto Comunista (S.C.)); erano cognati.
Proprio perché appartenenti a schieramenti diversi, entravano spesso in contrasto, non tanto per dissidi familiari che non c’erano, tanto per ciò che al V. B. il partito gli imponeva di fare contro gli accaniti oppositori locali e, suo cognato S. C., purtroppo, era uno di questi.
Era il periodo delle “Purghe” a base di Olio di ricino, un olio usato in medicina come purgante, e del quale gli oppositori più accaniti venivano costretti a berne un buon bicchiere, col doppio scopo di essere nel contempo puniti e intimiditi. V.B., fedele al Regime Fascista, apparteneva, per assoluta convinzione, alla segreteria del partito del paese e faceva parte del gruppo dirigente, di quelli cioè che disponevano del potere decisionale locale.
Per questo motivo, cercava di sfruttare la sua posizione dirigenziale all'interno del partito per essere "relativamente" benevolo e comprensivo nei confronti del cognato S.C., predestinato ad una delle tante purghe in quanto, “Accanito e Attivista Comunista”.
S.C., non disdegnava di dichiararsi tale, soprattutto quando aveva bevuto qualche bicchiere in più, ed aveva anche la sfacciataggine di sbandierarlo a tutti i venti, sentendosi supportato soprattutto dalla sua prestanza fisica, che era notevole.
Si sentiva troppo sicuro di se, non volendo riconoscere di essere uno dei predestinati alla “Purga Fascista”.
 Suo cognato, cercava di convincerlo a presentarsi volontariamente in sezione la sera in cui lui era presente, facendo così intendere che, se c’era lui, in qualche modo, avrebbe fatto in modo di diminuire magari il quantitativo di purga a lui destinato.
Gli avrebbe reso sicuramente meno traumatico l'avvenimento.
Lo stesso S. C., orgoglioso Comunista raccontava: pur di non dare soddisfazione a mio cognato, hanno dovuto portarmi con la forza alla loro sezione e con la forza mi hanno costretto a bere più del dovuto però, a tutti quelli che mi tenevano fermo seduto su una sedia, e a quello che mi tappava il naso, per essere certo che stessi bevendo, gli ho abbondantemente lavato la faccia, sputandogli addosso gran parte del liquido a me destinato.
 I tempi Fascisti erano anche questi.
I vicoli bui del paese costituivano il luogo ideale per mettere in atto soprusi che sfociavano spesso in accanite scazzottate, soprattutto quando qualcuno veniva riconosciuto o additato come “sovversivo”.
Il peggio era comunque che questo modo di fare si metteva in atto per spaventare la povera gente, anche quando non ce n’ era bisogno, ma spaventavano anche le ragazze oneste e di buona famiglia mettendo, a volte, a repentaglio la loro verginità. 
Nel momento in cui si recavano di sera al buio al loro magazzino per approvvigionare la loro casa di legna da ardere o di generi alimentari da cucinare tenute in questo luogo come provviste, improvvisamente e inaspettatamente, qualcuno ne approfittava mettendo in atto la sua malefatta.
Alle ragazze veniva spenta la lanterna ad olio che usavano per illuminare la strada che conduceva al loro magazzino, le saltavano addosso e la malcapitata ragazza altro non poteva fare che urlare e chiamare aiuto.
Il tentativo di violenza si concretizzava, nella maggior parte dei casi, con la sola rottura della Lanterna, perché al grido di soccorso, repentini erano gli interventi di aiuto verso la malcapitata del momento da parte dei vicini.
Se questo era un lato della medaglia, esisteva anche il suo rovescio, nel senso che, alcuni amanti o innamorati, volontariamente mettevano in atto una scena del genere, col solo scopo di poter “rubare” un bacio al buio.
Segni convenzionali scambiati tra innamorati durante la confusione di una fiera, o durante una processione od anche durante una funzione religiosa, portavano a questi incontri e simulati scontri clandestini, che colmavano spesso in un successivo felice e sereno matrimonio.
Fazzoletti Bianchi
 Quando ho incontrato in America alcuni miei compaesani, mi hanno raccontato di tristi addii e tragici distacchi dalla propria famiglia.

Fazzoletti Bianchi

 

Siamo noi quelli dai fazzoletti bianchi

Sventolati con forza

Per avere salutato o per essere stati salutati

Da un finestra, da un balcone,

per la strada del paese,

da una altura ai confini del paese,

ad una stazione ferroviaria,

o da un molo ad un porto di mare.

 

Ancora oggi

Siamo noi quelli

Dai “Fazzoletti Bianchi”

Perché costretti a salutare

I nostri figli e i nostri parenti

Destinati ad emigrare per studio,

ma soprattutto per lavoro

e per una dignità più degna.

 

I tempi cambiano

e nonostante tutto

continuiamo a sventolare fazzoletti,

baciando e abbracciando figli e parenti

a stazioni e aeroporti,

e piangendo, ormai convinti,

che il futuro non vedrà più

le nostre famiglie unite.

 

Er. Ga.

 
Padri costretti a lasciare andare i propri figli, mamme che lasciavano l’ultima carezza sul volto del proprio figlio destinato ad attraversare l’oceano, vicini di casa e compaesani che si sbracciavano con i loro fazzoletti bianchi per porgere l’ultimo saluto all’amico partente e . . . lacrime a fiumi che, da sole, rendevano sopportabile il dolore.
Ti confeso che, a malincuore, li ricordo anch’io questi benevoli saluti e questi strazianti distacchi.
C’era da attraversare l’oceano con tanti dubbi e tante paure e chissà se il destino sarebbe stato benevolo con noi che andavamo verso l’ignoto.
Ricordo i miei vicini di casa che con la loro presenza cercavano di scacciare il pessimismo che si insinuava nelle menti dei miei genitori, e quando è arrivato il giorno del distacco, divennero strazianti le parole e non finivano mai le raccomandazioni delle persone più anziane che, del mondo e della vita pensavano di saperne forse, di più.
 Chi non poteva venire alla stazione per il commiato finale, si chiudeva in se stesso e, con sguardo spento fissava un punto indefinito della stanza meditando e cercando di invocare mentalmente benevolenze e buona fortuna per il partente.
Sono cose che mi sono rimaste impresse nella mente per averle vissute in precedenza con altri che, in questa emigrazione, mi hanno preceduto.  Si seguiva col pensiero ogni passo che allontanava sempre più la persona cara dalla casa natia, e si immaginavano tanti fazzoletti bianchi sventolati in segno di benevolo saluto dal lungo marciapiede della stazione ferroviaria e dagli affollatissimi moli di attracco per le navi dirette in America.
 Purtroppo, non solo fazzoletti che sventolavano, ma bagni di lacrime alle quali era difficile porre fine.
E le lacrime continuavano anche nei giorni a seguire e la tristezza avvolgeva le persone come un alone impermeabile a ciò che succedeva intorno e impregnava le giornate di una tristezza indescrivibile.
Ad alleviare questa vita magra, c’era sempre il vicino di casa che chiedeva notizie e s’informava sulla persona partita, e al previsto orario di passaggio del Postino davanti casa, tutti stavano sull’uscio con la speranza di ricevere notizie da lontano.
E l’attesa si ripresentava immutabile il giorno dopo qualora il postino non avesse consegnato alcuna missiva e si accumulava così tanta sofferenza tra una missiva e la successiva, perché si viveva nella speranza di ricevere quelle buone notizie per le quali tutti pregavano e nelle quali tutti confidavano.
Quando l’attesa veniva finalmente ricompensata dall’arrivo di una busta a strisce colorate, si ringraziava per prima la Madonna, le trepidazioni scomparivano e appariva sul volto di chi l’aveva ricevuta il sorriso della speranza. 
Del contenuto, qualunque esso fosse, venivano subito messi al corrente tutti i parenti e i vicini di casa, soprattutto quelli più affettuosi e sinceri, quelli che, per intenderci, senza interesse alcuno, si rendevano partecipi sia alle gioie che e alle sofferenze pervenute, spendendo sempre una parola di consolazione.
Le buone notizie viaggiavano di casa in casa con rapidità inaudita, e in poco tempo, tutti venivano a conoscenza della buona riuscita del viaggio, dell’ingresso nella nuova terra e del lavoro che lì non mancava.
Erano queste le notizie che invogliavano altri partenti del luogo e che davano speranza a chi viveva nella miseria e meditava la partenza.
Era un eco che rimbalzava da una via ad un’altra e da un vicolo ad un altro, e così le sere, prima di andare a dormire, nelle famiglie si discuteva della possibilità di potere partire e di quella speranza che poteva concretizzarsi anche per loro.
Diveniva argomento di discussione durante le giornate lavorative così, tra un tonfo ed un altro di zappe che si conficcavano nel terreno, si valutavano anche queste remote possibilità di partenza, ed erano proprio queste discussioni, unite alla fatica giornaliera, che davano la spinta decisiva verso la partenza.
Ed entrava in gioco la famosa “valigia di cartone” che cominciava a riempirsi di speranza, e quando in essa finivano pure quelle poche cose utili alla sopravvivenza, si partiva verso l’ignoto.
Se questa era la triste realtà degli anni di cui stiamo parlando, anche oggi ho capito che le cose non sono poi tanto diverse perché, si continua imperterriti ad emigrare.
Superati gli anni del Boom economico si è ritornati a quella vecchia esigenza di emigrare, con la notevole differenza che si continua ad emigrare anche per quelle piccole cose che dovrebbero costituire un diritto per le persone umane.
Si parte per essere meglio curati da una malattia, si emigra per dare maggiore qualità ai propri studi, si emigra per trovare degna occupazione e dare concretezza agli studi e alle lauree conseguite.
 Non più la “valigia di cartone” piena e legata con spago nel dubbio che si potesse aprire perdendo così anche quelle poche speranze di sopravvivenza, ma Lauree e pergamene attestanti qualità e conoscenze che qui, da noi, non è possibile spendere.
E si continua ad emigrare alla ricerca di un luogo dove impiantare nuova vita e fissare la propria nuova dimora lasciando ancora una volta il vuoto negli affetti più cari dei parenti, dei genitori e degli amici tutti, prosciugando ogni sorta di risorsa economica a beneficio della grande città e del famigerato progresso.